Intervista a a Giuseppe Galato, autore di “Breve Guida al Suicidio”

Intervista a a Giuseppe Galato, autore di "Breve Guida al Suicidio"

Intervista a Giuseppe Galato, autore del libro “Breve Guida al Suicidio” edito da La Gru 

Non aspettatevi seriamente un libro sul suicidio, che vi illustri in modo dettagliato come tirare le cuoia con la stessa metodicità di un tutorial per preparare la torta di mele. Sul serio, non fatelo. Se avete iniziato a storcere già il naso, ricomponetevi: è difficile definire questa creatura letteraria di Giuseppe Galato, classe 1983, cilentano purosangue di Licusati e multitasking. Scrittore, musicista militante nella The Bordello Rock’n’Roll Band, responsabile d’ufficio stampa (dopo un passato da giornalista e il conseguimento del tesserino da pubblicista), nonché sex symbol (giuro che non mi ha pagata per scrivere una cosa del genere), Giuseppe Galato è una figura eclettica, poliedrica, costantemente scisso tra un’aura scapigliata e fumosa di malinconia e un’ironia scanzonata e amara. Probabilmente uno degli ultimi alfieri della cultura in una terra come il Cilento, ma non di quella accademica, polverosa e libresca, ma di quella viva e intelligente che illumina vari ambiti col filtro della criticità.  Forse lui non sa di esserlo, ed è meglio così. Lasciamogli la parola, in questa intervista torrenziale a metà strada tra l’epistola e la psicanalisi.

Giuseppe Galato, perché hai voluto scrivere un libro sul suicidio? Non tirerò in ballo I dolori del giovane Werther o Foscolo, voglio sapere cosa ti è saltato in mente.

Un’aura di malinconia, chiamiamola “depressione”, mi ha sempre accompagnato, sin da quando ero adolescente, per non dire bambino. E il pensiero del suicidio mi è spesso balenato alla mente. Per fortuna ho dalla mia una forte carica di ironia (e autoironia) che si trasforma in sarcasmo dai forti toni cinici, con cui riesco a riformulare e contenere i pensieri negativi su cui tendo a concentrarmi. L’idea del libro nacque da un’idea (poi diventata parte di un capitolo) che mi venne una sera, in un locale di un mio amico a Marina di Camerota. Quella sera cercavamo di capire come poter coinvolgere maggiore pubblico, ipotizzando quale tipologia di evento potessimo organizzare. E, mai come quella sera, con chi parlassi, aleggiava nell’aria una carica di negatività incredibile: ognuno in quel bar con le proprie depressioni. Quindi, ironizzando, proposi a Gerardo di organizzare dei “Suicide party”: sono feste in cui gli organizzatori forniscono ai propri clienti metodi svariati per poter farla finita. L’ironia aveva di nuovo vinto sulla depressione. L’idea mi piacque e, tornato a casa, buttai giù qualche riga: di lì poi è venuta l’idea di continuare ad “analizzare” il concetto di suicidio, prendendo ad esempio dei “casi” (fittizi), come fosse un saggio sul suicidio, appunto.

Quali sono stati i modelli da cui hai attinto nel redigere questo saggio autoironico? Ti è mai capitato che qualcuno fraintendesse il concetto su cui si regge la tua opera?

Non fra chi ha letto il libro. Più che altro è capitato sulla pagina Facebook, gente che, senza informarsi, non aveva capito che la pagina rimandasse prima di tutto a un libro e, in secondo luogo, al fatto che il modo in cui il tutto è trattato è ironico e, in un certo qual senso, terapeutico, un po’ il contrario di “Una risata vi seppellirà”, come dire “Una risata vi salverà”. In questo senso “Breve guida al suicidio” è rivolto principalmente a chi ha questi pensieri suicidi e tende a voler “empatizzare” con loro e, in qualche modo, dirgli che tutto sommato vale la pena vivere. Ad ogni modo, tornando alla domanda, sì, ho ricevuto anche delle offese, per questo titolo; o, ancora, alcune persone m’hanno preso per un centro consulenze, parlandomi dei loro problemi. In particolare m’è capitato che un individuo alquanto spregevole, legato ad ambienti filo-fascisti con tanto di articoli su giornale che riportavano il suo nome in relazione a raid razzisti, mi contattasse: licenziato, lasciato dalla moglie. E tutte la sua rabbia la indirizzava verso etnie altre e verso se stesso, visto che aveva questi impulsi suicidi. Gli consigliai di andare in analisi; la sua risposta fu “E se poi lo viene a sapere la gente?”: questo la dice lunga su quanto siamo emancipati rispetto ai disturbi psicologici, lievi o preoccupanti che siano.

Perché secondo te la gente si vergogna di far sapere che va in analisi o che sta vedendo uno psicologo?

In prima pianta perché fa paura prima di tutto a se stessi ammettere di aver “perso il controllo”. E gli impulsi sociali non aiutano in questo, in quanto la spinta è sempre indirizzata a puntare verso la perfezione (anche estetica, ma quello è un altro discorso). In Italia, in particolare, ricordiamo che abitiamo in un paese che solo sulla carta rifiuta un pensiero di tipo fascista, e il fascismo, come un po’ tutte le forme totalitarie (potremmo parlare di Sparta) non ammettono falle di alcun tipo: al giorno d’oggi non ti buttano giù da una rupe o non ti deportano nei campi di concentramento, ma lo sguardo negativo al “diverso” continua ad aleggiare. In uno Stato che funziona si dovrebbe sensibilizzare la popolazione a tematiche del genere (ma come anche sulla sessualità, che è strettamente connessa alla sfera psicologica) già dall’asilo.

 Nel tuo libro, come affronti il tema del consumismo che va di pari passo con insicurezze personali e sociali? Parlaci delle tue storie di suicidio “preferite” che hai trattato nella tua opera. Qualcuna è ispirata, seppur declinata in chiave ironica e sagace, a qualche avvenimento che ha toccato da vicino te e le persone che ti stanno attorno?

No, in realtà sono tutti esempi assurdi, alcuni che sfiorano il nonsense, quindi (a parte il citato capitolo sui “Suicide party”) sono tutte storie totalmente sconnesse dal mio vissuto. In “Breve guida al suicidio” ci sono molte dita puntate contro il consumismo (ma più che altro contro il sistema economico in generale), ma anche contro la religione (LE religioni: tutte), il malaffare… la società in generale. E sono legate alle insicurezze personali e sociali di volta in volta in maniera diversa. In “Breve guida al suicidio” prendo ad “esempio” personaggi che vanno dal sottoproletariato agli imprenditori, da uomini di religione a atei, e via dicendo, ognuno con i propri modi di vivere: ne viene fuori (almeno spero) un’analisi del sociale su (e da) più fronti. Ad ogni modo, non saprei citarti passi del libro che preferisco perché ce ne sono molti.

Quando hai cominciato a scriverlo e quanto ci hai messo? Quali sono state le soddisfazioni maggiori che ne sono scaturite?

L’ho scritto nel 2013 e la gestazione è stata alquanto veloce, circa 3 mesi: vivevo un periodo prolifico. Le maggior soddisfazioni sono arrivate naturalmente dalle recensioni positive (che sono state un bel po’), in particolare una su Il Sole 24 Ore che così recita: «In realtà, la guida di Galato diviene ben presto una critica opportuna al sistema… Molto buone le parti di attacco sagace alle convinzioni/convenzioni e i richiami alle psicosi dell’uomo, comprese quelle religiose». Sono soddisfazioni.

L’intervista continua qui

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A proposito di Monica Acito

Monica Acito nasce il 3 giugno del 1993 in provincia di Salerno e inizia a scrivere sin dalle elementari per sopravvivere ad un Cilento selvatico e contraddittorio. Si diploma al liceo classico “Parmenide” di Vallo della Lucania e inizia a pubblicare in varie antologie di racconti e a collaborare con giornali cartacei ed online. Si laurea in Lettere Moderne alla Federico II di Napoli e si iscrive alla magistrale in Filologia Moderna. Malata di letteratura in tutte le sue forme e ossessionata da Gabriel Garcia Marquez , ama vagabondare in giro per il mondo alla ricerca di quel racconto che non è ancora stato scritto.

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