Raffaele Alberto Ventura e la “Teoria della classe disagiata”

Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura | Minimum fax editore

Partiamo da lontano nella speranza di inquadrare adeguatamente il tema trattato da  Teoria della classe disagiata, libro edito da Minimum fax e scritto da Raffaele Alberto Ventura. Come si può intuire dal titolo, il libro si occupa del disagio di una classe, ma più precisamente si occupa della “classe disagiata”. Il passaggio potrebbe sembrare superfluo ma come si potrà chiarire successivamente comporta una notevole differenza. Teoria della classe disagiata, tra le altre cose, è anche uno strepitoso “archivio di metafore – romanzesche, filosofiche, cinematografiche, teatrali” che rappresentano perfettamente le dinamiche comuni ai disagiati di ogni epoca.  Questa che segue non vuole essere solo una recensione (e infatti tanti altri aspetti del libro non sono stati presi in considerazione) ma un tentativo di ragionare su come in fondo la musica e i film, che stiamo ascoltando e vedendo in questi anni, rappresentino perfettamente una condizione esistenziale che già Goldoni nel corso del diciottesimo secolo aveva messo in scena.  Del resto, Teoria della classe disagiata ha dato vita a un interessantissimo dibattito che non può essere affrontato in tutta la sua complessità in una sola recensione.

Raffaele Alberto Ventura, Calcutta e la musica indie

Raffaele Alberto Ventura, nel quarto capitolo del suo libro, scrive che: «In origine, il termine [indie] definisce le aziende culturali medie o piccole e i loro prodotti, in opposizione ai prodotti mainstream delle grandi major; oggi è semplicemente un claim promozionale. […] Il prodotto “indipendente” è oggi semplicemente uno dei tanti prodotti industriali disponibili». Nelle pagine che seguono l’autore sottolinea che: «Lo scenario è paradossale: grandi gruppi editoriali che pubblicano testi rivoluzionari, multinazionali discografiche che vendono canzoni che le sbeffeggiano, major cinematografiche che si mascherano da opifici indipendenti».
Tale riflessione sul mondo “indie” offre un interessante collegamento all’affermazione di una scena musicale indipendente italiana che trova in Edoardo Calcutta, in arte Calcutta, l’esempio più importante. Il 30 novembre 2015 Calcutta pubblica “Mainstream”, il suo secondo disco. Nel giro di un anno Calcutta riesce a consacrarsi come esponente di un movimento musicale (non ben definito) che prende il nome di indie. Dopo due anni abbondanti dall’affermazione della scena “indie”, non si è ancora compreso quale siano le differenze tra indie e pop e dove finisca l’uno e inizi l’altro, dato che i due generi (ammesso che l’indie sia un genere) sembrano inglobarsi vicendevolmente. Il tempo,forse, chiarirà cosa sia esattamente l’indie e darà la possibilità di comprendere se in realtà ci troviamo semplicemente dinanzi ad una musica pop che ha trovato altri canali di distribuzione e che per questo è stata percepita come “differente”, come se il mezzo avesse determinato il contenuto; o se effettivamente ci troviamo dinnanzi a qualcosa di diverso.

Lasciando al tempo il compito di sciogliere questo nodo e tornando all’album “Mainstream”, la parola che più viene associata al cantante di Latina è disagio. Termine che tra l’altro non piace all’autore che ha più volte sottolineato come il suo intento sia semplicemente quello di raccontare storie, non di inquadrare una generazione.  Al di là di ciò che Calcutta affermi, in quasi tutte le critiche e interviste il tema del disagio torna e sembra essere l’elemento caratterizzante del disco.  Forse, molto banalmente, nel raccontare le sue storie ha intercettato un sentimento latente, soprattutto in quella fascia d’età che spazia tra i 15 e 30 anni. È difficile capire esattamente di che sentimento si tratti perché, appunto, è un qualcosa che viene percepito da chi ascolta più che determinato da chi canta. Spulciare nei testi delle canzoni può forse rendere un’idea del segmento di cui si sta parlando.

Che cos’è il disagio? Probabilmente il disagio è quella sensazione che scaturisce dall’impossibilità di scegliere: “Non ho lavato i piatti con lo Svelto e questa è la mia libertà”, canta ironicamente Calcutta in “Frosinone”. Quella sensazione che si prova quando andando alle feste e alle cene ci sia annoia costantemente e per cui ci si sente perennemente in debito col futuro mentre si rimpiange un passato che neanche si è vissuto.  Saranno tutti questi elementi, o molto più semplicemente delle basi musicali che entrano in testa al primo ascolto, ma il video di “Cosa mi manchi a fare” su YouTube registra nove milioni di visualizzazione e, tra qualche mese, Calcutta canterà all’Arena di Verona.

Il disagio della classe disagiata secondo Raffaele Alberto Ventura

Questo malessere è riscontrabile in altri album (si pensi ad Avete ragione tutti dei Canova) ma anche nell’ambito cinematografico. Il 6 febbraio 2014 arriva nelle sale italiane Smetto quando voglio, film che racconta la folle impresa di una banda di giovani ricercatori italiani che, disperati per la situazione economica e lavorativa, decidono di produrre smart drugs, droghe che non sono catalogate come tali dalla legge e che quindi possono essere vendute senza rischio di ripercussioni legali. Il film sarà il punto di partenza di una trilogia che proseguirà con Smetto quando voglio – Masterclass e Ad Honorem. Il cuore del racconto dei film di Sydney Sibilia è un sentimento di rabbia e frustrazione dovuto all’impossibilità di lavorare nonostante le competenze e, conseguentemente, alla necessità di condurre una vita di costrizioni, mancate opportunità e umiliazioni. Per sfuggire a questo malessere i giovani ricercatori italiani sfruttano le loro competenze per produrre e vendere droga.
Se i protagonisti di Smetto quando voglio avessero letto il libro di Raffaele Alberto Ventura avrebbero capito che in realtà la loro laurea non era altro che un bene posizionale, un bene volto ad affermare uno status. Il problema è che, se tutti hanno la laurea, il valore della stessa è destinato a crollare e conseguentemente tutti saranno disposti ad investire maggiori risorse per differenziarsi dando vita ad una spirale negativa da cui è difficile uscire. Questo è il punto di partenza del saggio che, offrendo una rilettura dei beni posizionali di cui Veblen aveva parlato nella sua Teoria della classe agiata, propone una riflessione che abbraccia l’economia, la società, l’arte e il sistema educativo italiano.

Cosa lega Smetto quando voglio, Mainstream e Teoria della classe disagiata? Apatia, malessere diffuso, disinteresse, conflittualità eccessiva, scarse relazioni con gli ambienti che si frequentano, insoddisfazione per le attività svolte. In sintesi, il disagio.

Da dove proviene questo disagio? «I cosiddetti Millennials, nati tra il 1978 e il 1999, hanno studiato, hanno sperato, hanno investito e continuano a investire per garantirsi un inserimento professionale all’altezza delle loro aspirazioni; eppure non ci sarà spazio per tutti. In assenza di un nuovo miracolo economico, gran parte di questa generazione è semplicemente condannata al declassamento». «Una classe ricca, ma non abbastanza ricca. Ricca per studiare e acculturarsi, spesso male, ma non abbastanza per condurre quella vita che si era convinta di meritare».

Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura: un sogno che si trasforma in incubo

 

Viviamo in un sogno in cui ci sono milioni di opportunità che ci sembrano concrete ma quando proviamo ad afferrarne una il sogno si trasforma in incubo. Il disagio scaturisce dalla consapevolezza dell’essere all’interno di questo incubo.  Il problema è che in realtà le nostre condizioni di vita, se paragonate a quelle del dopoguerra, sono ottime. Tralasciando le fasce della popolazione che versano in condizioni di povertà relativa ed assoluta, oggi non è difficile trovare persone che parlano come se effettivamente vivessero in una condizione di povertà salvo poi andare ogni anno in vacanza all’estero ed avere smartphone di ultima generazione con tanto di abbonamento per la connessione dati, chiamate e messaggi illimitati. Siamo poveri o lo siamo in relazione a ciò che vorremmo fare ed essere?

Una delle principali critiche rivolte al libro di Raffaele Alberto Ventura riguarda la mancata definizione di “classe disagiata”. Da chi è costituita la classe disagiata? Il problema in realtà è che, così come Calcutta esprime un sentimento in cui molti si sono ritrovati senza neanche sapere il perché, allo stesso modo, la classe disagiata è costituita da persone che si sentono tali. Come fai a definire una classe sulla base di un sentimento? La classe disagiata diventa tale quando si riconosce come tale.

Il maggior pregio di questo libro, forse, è proprio l’aver sferrato un attacco feroce e a tratti doloroso ad una generazione che sembra voler fuggire dalla realtà. È vero che nella teoria di Raffaele Alberto Ventura manca una soluzione al problema che viene messo in evidenza, ma è altrettanto vero che nessuno fino ad ora aveva evidenziato quel problema con tanta forza e onestà.  La classe disagiata necessita di prendere coscienza di sé e in questo Teoria della classe disagiata raggiunge il suo obiettivo.

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A proposito di Salvatore Tramontano

Studia Mass Media e Politica presso l'Università di Bologna. Scrive per capire cosa pensa.

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