Cast Away: i dischi da portare su un’isola deserta

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dischi isola desertaChuck Noland, impiegato della FedEx interpretato da Tom Hanks nel film Cast Away, naufragato sull’isola di Monukiri, affidò tutte le proprie confidenze alle cure del pallone Wilson, unico reperto di quel disastro aereo che lo confinò nell’arcipelago delle Fiji. Strappato alla propria normalità, egli mise da parte le frivolezze che riempiono i nostri giorni per concentrarsi esclusivamente sulla propria sopravvivenza. Da buon fannullone quale sono, sempre incline a declinare ogni tipo di fatica domestica, se mi trovassi segregato su un’isola, lontano dalla civiltà e da ogni forma di comunicazione, metterei l’assenza di musica sullo stesso piano della mancanza di cibo, elettricità e acqua corrente. L’oggetto che più rimpiangerei sarebbe il mio Ipod nano da 8 gb, comprato nell’estate che segnò il personale passaggio al liceo e colmo degli album della mia vita.

I dischi da portare su un’isola deserta

Outside it’s America!

Chi del resto meglio di Bob Dylan potrebbe prendere il posto della compagnia di un pallone da pallavolo: proprio il menestrello di Duluth sarebbe il primo nome a comparire in questa playlist con il suo Blonde On Blonde e le armonie indimenticabili di Visions of Johanna e Just Like A Woman. “To live outside the law, you must be honest” recita Absolutely Sweet Marie: già me lo immagino, Mr Zimmermann, davanti al fuoco di un falò, con in braccio una chitarra, ad intrattenermi con le sue storie d’America.

A fargli compagnia ci sarebbero altri due cantastorie d’oltreoceano, quali il demoniaco Johnny Cash e “The Boss” Bruce Springsteen. At Folsom Prison e The River tramutano in poesia la quotidianità e rendono la musica uno strumento di denuncia per le classi più emancipate. “But I shot a man in Reno just to watch him die”, “Now those memories come back to haunt me, they haunt me like a curse” cantano rispettivamente Cash e Springsteen: i due storyteller ci portano nelle periferie ad ascoltare vite oppresse dal peso dell’esistenza e impossibilitate a vivere il futuro desiderato.

Every little thing gonna be alright

A compensare questo grido di aiuto affranto giungerebbe un giamaicano dai lunghi dreadlocks a spiegare che non bisogna preoccuparsi di niente perché ogni piccola cosa andrà bene. Legend, la raccolta postuma di Bob Marley, è stato uno dei primi dischi che ho consumato, attratto dal rapporto viscerale tra l’artista e la sua isola natia, la Giamaica.

Un po’ quello che è avvenuto con Pino Daniele e Napoli, e non potrebbe mancare, in questa che si sta trasformando in una Coena Cypriani, il blues travolgente di Nero a Metà. Pino con il suo spirito scugnizzo consolerebbe “appocundria ca’ scoppia ogne minuto ‘mpietto” perché “tanto l’aria s’adda cagna’”. Egli verrebbe affiancato dal concittadino Edoardo Bennato, venuto apposta dalla sua isola che non c’è per narrare la favola di Pinocchio con in mano il vinile di Burattino senza Fili. Forte di accostamenti nuovi tra l’opera di Collodi e l’Italia degli anni di piombo, Bennato sconvolge per il suo sarcasmo tagliente e il rifiuto di ogni forma di potere e insegnamento.

Eroe di un mondo apocalittico è invece David Bowie, chiamato in appello già solo per Heroes, colonna sonora della mia adolescenza ed architrave dell’omonimo album, peraltro arricchito da pezzi struggenti come Sons Of The Silent Age. Ho già interpellato il meglio della discografia mondiale dell’ultimo secolo, ma considerando che il mio Ipod può contenere fino a un massimo di settanta album e che potrei trascorrere il resto dei miei giorni su questa fantomatica isola deserta, capite benissimo che ho ancora molti posti da aggiungere attorno al fuoco.

I love Rock’n’roll

Avrei d’altronde un ritratto parziale degli States a causa dell’assenza degli U2 e dei loro racconti nati nella Death Valley. The Joshua Tree è un disco meraviglioso con il quale il gruppo irlandese esplora le radici del rock americano, basta citare “Red Hill Mining Town” e “Where The Streets Have No Name”: quanto rimpianto per la neonata megalomania di Bono e compagni. Proprio Paul David Hewson indicò Grace di Jeff Buckley come l’unico album che avrebbe portato con sé su un’isola deserta. Impossibile contraddirlo, dall’alto della voce fuori da ogni moda e tempo di Buckley, esaltata in brani memorabili come Last Goodbye o la cover di Hallelujah, la quale suscitò le lodi entusiaste di Jimmy Page, anch’egli suo agio in questo simposio musicale a far vibrare la sua dodici corde sulle note di Dazed and Confused. Led Zeppelin I è una pietra miliare, la voce di Robert Plant è un martello senza tregua e squarcia ogni cosa che incontra sul proprio cammino.

I carmi conviviali non sono però conclusi ed essendo a corto di figure mefistofeliche il viaggio si concluderebbe a Cuba, con le atmosfere latine di Ry Cooder e Buena Vista Social Club, “porque cantando se alegran, cielito mo, los corazones”. Ditemi se questa manciata di roba non basta da sola a vivere appagati per il resto dei giorni: musica da stare bene per i prossimi millenni, con la quale confidarsi e alla quale affidare tutte le emozioni e le angosce dell’essere soli in un’isola sconosciuta.

A proposito di Matteo Pelliccia

Cinefilo, musicofilo, mendicante di bellezza, venero Roger Federer come esperienza religiosa.

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