Francesco Di Bella alla Federico II: guardare la città dando le spalle al mare

Francesco Di Bella

Francesco di Bella alla Federico II: dai 24 Grana alla Nuova Gianturco. Cosa è cambiato?

Magrolino, piccolo e con un timbro rauco, graffiato e inconfondibile.
L’andatura sempre uguale, del resto lui non è mai cresciuto, come cantava in Vesto sempre uguale. La risata fresca da eterno guaglione del centro storico napoletano e di Piazza San Domenico: Francesco Di Bella, ex leader dei 24 Grana, si porta addosso, come un aroma delicato, una napoletanità malinconica e ombrosa, con negli occhi i fasti e la distruzione di un’epoca che non tornerà più, che si è consumata tra i vicoli, le notti sudate e le note dissonanti di un centro storico che non è stato mai tanto fertile e fecondo come in quegli anni lì. Il ventre del centro storico.
Se quelle piazze potessero parlare, racconterebbero la storia dei 24 Grana, degli anni d’oro di Metaversus, Ghostwriters, del K Album, di quella musica che attingeva a piene mani dal ventre della città  senza toccarne gli organi interni: sì, perché Di Bella e soci hanno sfiorato la pelle della musica napoletana rifondandola e sovvertendola, creando-senza esserne consapevoli- una sorta di Neapolitan Power che è stato, paradossalmente, riscoperto dopo anni nella sua piena portata storica. Di tutto ciò ce ne ha parlato lo stesso Francesco Di Bella, il pomeriggio del 22 novembre all’incontro presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II: l’appuntamento con l’ex leader dei 24 Grana è stato il primo del ciclo di incontri e dei dibattiti con le voci che hanno caratterizzato il sound napoletano dagli anni ’60 fino ad oggi, e si spera possano seguirne altri altrettanto soddisfacenti e proficui, come ha puntualizzato il professor Enrico Careri, docente di Musicologia presso l’ateneo federiciano. Una chiacchierata intima e confidenziale: ecco cosa è stato l’incontro di Francesco Di Bella con gli studenti della Federico II; non sono mancati i momenti di confessione e neppure quelli in cui ha imbracciato la chitarra per suonare alcuni dei classici dei 24 Grana e del suo album da solista, Nuova Gianturco.

Anni di fermento controculturale: la Napoli dell’Officina 99

La Napoli di Di Bella sputa fumo, dub, postpunk e sonorità scheggiate: non è la Napoli tinta di mille colori di Pino Daniele, non è la Napoli che sa del sugo delle pizze a portafoglio mangiate sulle gradinate, e non è neppure la Napoli delle sirene e dei miti. È  una Napoli che sa di tumulti intestini, dell’aria della notte del centro antico e di officine dove -senza saperlo- si stava creando un serbatoio di controcultura (dal quale si sarebbe abbeverata più di una generazione di gruppi musicali, cantautori, menestrelli o aspiranti tali). I maestri di Di Bella non sono canonici, come ci ha raccontato: per lui molto preziose sono state le sonorità del gruppo operaio di Pomigliano D’Arco E’ Zezi, rispetto a quelle di Pino Daniele.  Allo stesso modo il cantautorato classico italiano non ha impresso la sua influenza in lui in modo rivelante. Molto più importanti per Di Bella sono stati Lou Reed e la sua inquietudine ipnotica, Nick Cave & The Bad Seeds e soprattutto i Joy Division, col loro ritmo martellante, catastrofico e autolesionistico. L’unico De André che ha penetrato l’immaginario di Di Bella è stato quello di Tutti Morimmo A Stento, e non difficile immaginare il perché. L’impasto culturale da cui sorgono Di Bella e i 24 Grana nasce dal magma di quella Gianturco che non rappresenta soltanto un luogo, ma un modo diverso di guardare la città, dando le spalle al mare e alle bellezze del Golfo e osservando la crudeltà della periferia, che spinge a rimboccarsi le maniche. In quella Gianturco, che poi ha dato il nome all’album solista di Francesco, si cominciavano a diffondere le prime tammurriate nude e crude, aleggiava Roberto De Simone, ci si approcciava al ritmo tribale della tammorra, si partiva e si correva alla vicina Madonna delle Galline per dissetarsi di riti pagani, tamburi e canti urlati a squarciata.
Un difetto implacabile di questa città e di questo Paese è quello di non riuscire a storicizzare le cose. Il Neapolitan Power si è delineato in tutto il suo spessore solo a posteriori, ma in principio c’era l’Officina 99. C’erano Raiz e gli Almamegretta, con la sua Nun te scurdà che è diventata quasi un manifesto futurista del sound partenopeo; c’erano Luca Persico e i 99 Posse che hanno cominciato a far correre una generazione con la loro Curre Curre Guagliò; c’erano i tramonti di una scena napoletana ingenua quanto dolce e brutale nelle proprie convinzioni e velleità; c’era Gianturco, ponte tra la cultura operaia e quella borghese. E c’era lui, Di Bella, perso nello stomaco di quella città fatta di pietruzze e vicoli che trasudavano cambiamento, perso tra il primo anno a Giurisprudenza -abbandonata subito dopo- e la più rapida conversione all’Orientale, lasciata subito dopo. C’erano Renato Minale, Giuseppe Fontanella, i suoi compagni; c’erano gli stessi panni di chi veste sempre uguale e riconosce se stesso; c’era Canto pe nun suffrì; c’era la Danza Shi Shi Mai di Stai mai ccà; c’era il dub speziato e tremolante di Introdub; c’era Loop, che ti fa galleggiare in una bolla in cui l’anima va più lenta del pensiero. E che ti sublima, col moto circolare delle onde.
Ma com’è stato registrare degli album in quei periodi lì? Di Bella ha raccontato alla platea degli studenti i tempi delle registrazioni di Loop, rigorosamente in analogico, con otto mani impegnate a mettere e togliere effetti, ha raccontato la nascita della curiosa Danza Shi Shi Mai, nata alle tre e mezza del mattino  guardando Fuori Orario, in un istante in cui si parlava proprio di questo rito.  Ha poi accennato anche alla nascita dell’iconico videoclip, sognante e dai toni onirici, firmato da Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti.

Francesco Di Bella conclude l’incontro suonando alcuni suoi pezzi e alcuni dei successi dei 24 Grana in coro con gli studenti

L’incontro si è concluso nel più naturale dei modi: Di Bella ha imbracciato la chitarra e ha suonato, con una platea commossa di studenti, alcuni brani del suo album e dei 24 Grana. Tra un Accireme, un Kevlar e un accenno al Cardillo, l’incontro si è concluso, lasciando nell’aria una sensazione di nostalgia. Nostalgia di qualcosa di indefinito che sa di disillusione e giovinezza, che ti punge come una passeggiata sul viale del tramonto. Il tramonto della giovinezza di noi tutti, quella giovinezza così odorosa delle canzoni dei 24 Grana e della voce di quel ragazzo bassino che ci diceva che “nun è ‘ppè nnient bbuon”.

 

 

A proposito di Monica Acito

Monica Acito nasce il 3 giugno del 1993 in provincia di Salerno e inizia a scrivere sin dalle elementari per sopravvivere ad un Cilento selvatico e contraddittorio. Si diploma al liceo classico “Parmenide” di Vallo della Lucania e inizia a pubblicare in varie antologie di racconti e a collaborare con giornali cartacei ed online. Si laurea in Lettere Moderne alla Federico II di Napoli e si iscrive alla magistrale in Filologia Moderna. Malata di letteratura in tutte le sue forme e ossessionata da Gabriel Garcia Marquez , ama vagabondare in giro per il mondo alla ricerca di quel racconto che non è ancora stato scritto.

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