Mogol e i linguaggi della creatività

Mogol

Mogol e i linguaggi della creatività: il paroliere di Battisti fa tappa a Napoli

Provate a ricordare il testo de “I giardini di marzo”, “Il Mio Canto Libero”, “Un’Avventura”. E anche di “Pensieri e Parole”. O forse non c’è nemmeno bisogno che li ricordiate, perché sono ben fissati nella tavolozza dei primi ricordi musicali, come un odore che c’è sempre stato e che ha da sempre impregnato l’aria, il vento e tutto ciò che c’è attorno a noi, con la sua fragranza che ha la consistenza delle stanze di casa o del cortile dei nonni. I primi ricordi musicali della maggior parte di noi, i ricordi più semplici e più “popolari”, hanno le fattezze, le vocali e le consonanti di questi testi, dal campo di grano al carretto che passava, fino alle praterie dove corrono dolcissime le malinconie. Lo sanno tutti che la penna da cui questi testi sono scaturiti è quella famosa di Giulio Rapetti, in arte Mogol, classe 1936, pseudonimo arroccato in maniera inespugnabile nell’immaginario della cosiddetta cultura pop. Produttore discografico, scrittore, ma soprattutto sodale di Lucio Battisti: dal loro fortunato sodalizio, consolidato verso la fine degli anni Sessanta, sono nate alcune delle canzoni ascrivibili a pieno titolo nella cultura di massa che rientrano a pieno titolo nelle vette siderali della musica leggere italiana. In quella cultura pop insita nel nostro patrimonio genetico musicale prima ancora che si formi una vera e propria coscienza critica individuale. Mogol e Battisti raccolsero le gemme del loro lavoro congiunto in un cofanetto “Le avventure di Lucio Battisti e Mogol”, cofanetto dal retrogusto vintage e molto beat, tappa d’approdo del loro forte legame che li portò a perdersi assieme nei meandri della natura, della vita e della creatività, viaggiando a cavallo insieme da Milano fino a Roma, passando per La Spezia e Sarzana. Un fermento artistico, dicevamo, dal sapore molto beat, giacché Mogol ha incentivato anche il traghettamento di molti artisti in Italia, primo fra tutti il premio Nobel Bob Dylan, di cui tradusse la maggior parte dei testi, David Bowie, i Mamas & Papas, (direttamente dalla Summer of Love dell’epopea hippie americana), di cui portò in Italia “Sognando California”, calco di “California dreamin'”, e i Procul Harum. Il suo sguardo lungimirante ha scrutato lo srotolarsi del tappeto della cultura musicale negli anni, ma anche delle varie controculture, dai movimenti progressive italiani (non dimentichiamo che sua è anche la preziosa “Impressioni di Settembre” della Premiata Forneria Marconi, interpretata poi dai Marlene Kuntz), alla cultura hippie e poi folk, dal cantautorato di qualità fino alla musica leggera di Mina, Gino Paoli, Luigi Tenco, Battisti, Adriano Celentano e il più recente Mango. La sua attività è stata capillare, instancabile e da stakanovista, e la si può soltanto contemplare con la stessa ammirazione di chi è consapevole di trovarsi di fronte a un arazzo meraviglioso, intessuto dei suoi testi che hanno valore di fili preziosi annodati tra loro e pregni di un intrinseco valore letterario.

 

Mogol a Napoli, a parlare di musica e creatività nella cornice del Complesso dei Santi Marcellino e Festo

Il pomeriggio del 16 novembre, Mogol è salito in cattedra a Napoli, portando il suo arazzo di fili luminosi tra gli affreschi del Complesso dei Santi Marcellino e Festo, nell’ambito del seminario “I linguaggi della creatività”, promosso dall’Osservatorio Territoriale Giovani del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, in collaborazione con Optima Italia e nell’ambito delle attività di StartUp Music Lab (MiBACT-SIAE). Ha partecipato all’incontro anche Red Ronnie, noto conduttore televisivo, e tutto ciò è stato moderato da Lello Savonardo, docente di Comunicazione e culture giovanili dell’ateneo federiciano. Un pomeriggio di scambi, di interconnessioni e, soprattutto,  di musica. La musica ha fatto da contrappunto alle parole di Mogol, accarezzando i colori e gli scintillii degli affreschi e delle volte della chiesa, in un connubio pagano e profano di musica, storia e cultura pop. Il sacro ha strizzato l’occhio allo svolgersi della cultura musicale italiana, e Mogol ha esordito facendo ascoltare alla platea alcuni dei successi più longevi di Lucio Battisti, firmati dalla sua penna. Era prevedibile un clima di commozione generale, tant’è che Mogol ha chiesto un applauso alla memoria di Lucio, perché la morte è intrecciata a doppio filo con la vita ed è un fatto del tutto naturale, come ha detto il paroliere al pubblico. Il carretto dei gelati, il canto libero, la collina dei ciliegi, il coraggio di vivere che ancora non c’è, hanno smesso di essere fantasmi appartenenti alla carta e sono divenuti simulacri reali, in un pomeriggio piovoso di novembre. Sembrava di toccare con mano le pareti della casa di Mogol, che da bambino abitava nell’ultima casa del suo paese vicino alla ferrovia e non aveva soldi per comprare il gelato dal carretto che ha immortalato nel suo testo, sembrava di toccare una cosa sacra al pari delle volte e delle navate preziose e dorate della chiesa. Sacro è il concetto di letteratura e di dignità letteraria, sacro è il valore di un testo musicale: del resto, come ha ribadito Mogol, Dante non ha forse scritto in volgare e non in latino, appunto per avvicinarsi agli strati popolari e far penetrare la sua monumentale sorgente di poesia dovunque? Non scelse di scrivere nella lingua delle “donnicciuole” e delle “lavandaie”, rifuggendo la lingua dei dotti? E Shakespeare, non fece lo stesso? E Goldoni, Mòliere?
Il processo creativo che porta Mogol a far scaturire un testo è quasi visionario, molto immaginifico: l’autore ha confidato al pubblico che crea immaginando la musica, gli arrangiamenti e l’atmosfera, ed è proprio all’atmosfera che sceglie di rimanere fedele, alla concitazione dell’atto creativo e al sentimento racchiuso nelle note. Vivere la musica è l’imperativo categorico dell’esistenza di Mogol, parlare di musica e vivere attraverso il filtro della musica: ha concluso la sua lectio magistralis facendo ascoltare al pubblico piccoli stralci di canzoni di artisti che, a suo parere, la musica la vivevano e la vivono davvero. Non sono mancati spezzoni di Lucio, ma nella chiesa è risuonata anche “Like a rolling stone” di Bob Dylan, Claudio Villa, Nilla Pizzi, Elvis Presley e, a sorpresa, il contemporaneo Gotye con la sua “Somebody that I used to know” (artista dall’estensione vocale che ricorda molto Sting e le cui atmosfere ricordano molto i The Cure).
In un pomeriggio piovoso di novembre, Mogol ci ha regalato un appuntamento irrinunciabile con la storia, con i chiaroscuri della cultura pop e della creatività, perché il tessuto sociale e la memoria di un popolo passano attraverso il livellarsi delle forme artistiche.  Musica e letteratura non viaggiano mai su due binari separati, ma sono il respiro di una stessa anima, e non da ora: gli aedi e i rapsodi di tante epoche fa, con le loro lire e la loro voce, ci hanno insegnato il valore della letteratura come ultima, disperata memoria uditiva e sonora di un popolo.

 

A proposito di Monica Acito

Monica Acito nasce il 3 giugno del 1993 in provincia di Salerno e inizia a scrivere sin dalle elementari per sopravvivere ad un Cilento selvatico e contraddittorio. Si diploma al liceo classico “Parmenide” di Vallo della Lucania e inizia a pubblicare in varie antologie di racconti e a collaborare con giornali cartacei ed online. Si laurea in Lettere Moderne alla Federico II di Napoli e si iscrive alla magistrale in Filologia Moderna. Malata di letteratura in tutte le sue forme e ossessionata da Gabriel Garcia Marquez , ama vagabondare in giro per il mondo alla ricerca di quel racconto che non è ancora stato scritto.

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