Il TRAM fra passato e presente: intervista a Mirko Di Martino

Mirko Di Martino

Il teatro TRAM è uno dei piccoli grandi volti teatrali partenopei. Ricordiamo in questa sede un’intervista di qualche tempo fa, ma sempre attuale.

Entrare al TRAM (Teatro Recitazione Arte Musica) significa addentrarsi nel cuore di Napoli. Le sue scalinate, illuminate da luci soffuse, discendono nella terra fino a portare lo spettatore nell’anima del teatro. Ad accoglierci è il Direttore artistico e fondatore della compagnia del Teatro dell’Osso Mirko Di Martino, che ci ha spiegato quale sia l’idea portante del TRAM: una linea che riesca a coniugare insieme drammaturgia e memoria popolare con un certo sperimentalismo, che sappia farsi comprendere dal pubblico.

In particolare, la drammaturgia di Di Martino affronta temi quali la memoria e l’identità dei suoi personaggi attraverso uno scavo profondo della loro coscienza, i quali diventano pretesti per analizzare tematiche universali. Accanto a questo tipo di approccio vi è anche una certa forma di sperimentazione, allo scopo di proporre nuovi linguaggi fruibili di comunicazione, di cui è felice esito la rassegna da lui stesso ideata Vissi d’Arte, che coniuga teatro e arti figurative, e il cui più recente risultato è stato lo spettacolo Explodin Plastic Wharol, che ha aperto magnificamente questa seconda stagione del TRAM.

Il TRAM di Mirko Di Martino: le diverse scelte drammaturgiche

Nella tua biografia artistica si articola in un passaggio biunivoco dalla drammaturgia alla direzione teatrale. Raccontaci se e come la direzione artistica del TRAM abbia influito sulla tua scrittura drammaturgica.

È vero che l’apertura del TRAM ha influito sulla scrittura drammaturgica perché per la prima volta ho avuto l’occasione di pensare a uno spettacolo, in particolare Exploding Plastic Wharol, che è nato appositamente per questo posto. Fino a quel momento i miei spettacoli erano legati a quelli che erano i miei interessi generali, o alle possibilità produttive, o all’interesse del Teatro dell’Osso, ma non al luogo specifico. Nel momento in cui abbiamo per la prima volta pensato a uno spettacolo che doveva nascere qui e stare qui per un certo periodo di tempo, siccome il TRAM ha anche una struttura abbastanza particolare, proprio come edificio teatrale, allora c’è stata un’influenza non tanto nella scelta del tema, ma sull’idea dello spettacolo che sarebbe dovuto nascere. Non influisce ovviamente tanto sullo stile, né sui temi, ma certamente influisce invece sull’idea di un testo che viene pensato già per un certo tipo di allestimento. In particolare Wharol è stato pensato e scritto proprio per essere messo in scena in quel modo che ha suggerito il TRAM stesso. Difficilmente potrebbe essere messo in scena in un’altra maniera e anche, con certe difficoltà, in un altro posto, in quanto è nato esattamente qui. Più in generale, il fatto di avere la direzione artistica influisce sulla scrittura, dovrei dire in maniera negativa, nel senso che lascia meno tempo per la scrittura, ed è difficile conciliare le due cose perché scrivere è un’attività a tempo pieno; anche perché raramente capita di iniziare a scrivere un testo di cui si è convinti fin dall’inizio, se è già quello che si vuol fare. In genere, è più una ricerca. Si comincia da un’idea, se ne valutano tante, se ne abbandonano tante altre, ci si torna su, e il fatto di avere la direzione artistica del TRAM mi toglie tempo, e soprattutto comincia a spingermi verso una selezione un po’ più ristretta: cioè ho meno tempo per sperimentare. La direzione artistica del TRAM mi ha portato a valutare in maniera un po’ più concreta le scelte drammaturgiche, in maniera un po’ più orientata verso la produzione.

Tra i tuoi spettacoli figurano alcuni dedicati ad Artemisia Gentileschi, a Andy Warhol e a Vincent Van Gogh. In essi si rendono i tratti peculiari dei rispettivi caratteri, pretesti per discutere anche di tematiche universali. Inoltre sei direttore della rassegna Vissi d’Arte: come coniughi ricostruzione biografica, arte figurativa e teatro?

È stato lo stesso festival Vissi d’arte, e quindi i testi che io scrivo per Vissi d’Arte, quelli che nascono tutti all’interno di quel festival lì, che mi hanno portato a questo accostamento. È stata una scoperta un po’ casuale. L’unico testo che è nato prima di Vissi d’Arte è Artemisia, e non ero dell’idea di creare una rassegna o comunque un percorso lungo. Artemisia Gentileschi era una pittrice che ha interessato per la propria esperienza biografica e anche per come la vita influenza le opere. È un esperimento che per me finiva lì. Poi ci siamo resi conto che invece c’è un interesse fortissimo da parte del pubblico ad ascoltare storie che raccontino questi grandi artisti e la nascita delle opere, e che le raccontino attraverso il teatro; allora ho cominciato a pensare che sarebbe stato interessante affrontare anche questi altri pittori. Il teatro si coniuga bene con la pittura e l’arte perché attraverso il teatro andiamo a raccontare tutto quello che nell’arte sta dietro, cioè quell’elemento fondamentale che è la vita, l’esperienza biografica degli artisti che noi raccontiamo, mentre in genere il pubblico si limita al prodotto finito, diciamola così, all’opera ultimata, ad esempio ai Girasoli di Van Gogh che sembrano sempre isolati da un contesto. Il teatro permette di ricostruire questo rapporto fortissimo tra l’esperienza personale del pittore e le opere. E lo si può fare con mezzi molto più ampi dello storico dell’arte, del libro, del romanzo; il teatro dura soltanto un’ora, ma ti permette di costruire delle storie in cui tutto questo vissuto viene fuori in maniera fortissima. Poi ci sono stili completamente diversi: gli spettacoli miei sugli artisti hanno, ognuno, uno stile suo che è legato anche all’artista.

Anche la ricostruzione storica è parte integrante di alcuni tuoi lavori. A tal proposito ci riferiamo allo spettacolo Il fulmine nella terra. Irpinia 1980. Si tratta di uno spettacolo attuale sia per la portata della tematica, sia per l’idea portante di una memoria collettiva cancellata in pochi minuti, tanto da essere stato trasmesso integralmente su Rai 5 il 25 novembre 2017. Cosa puoi dirci a riguardo del rapporto della tua scrittura drammaturgica con la storia?

In Il fulmine nella terra c’è un dato biografico personale: sono originario dell’Irpinia, e quindi in questo spettacolo, rispetto a tutti gli altri, c’è non soltanto una riflessione sulla storia, ma c’è anche un percorso facente parte della mia crescita personale. Qui è veramente diverso per i legami personali, però esiste un profondo rapporto con la storia. La storia non è solo uno degli aspetti più importanti, ma anche uno tra i più dimenticati oggi, nel presente, da questa comunità nostra che vive veramente nell’immediato, ad esempio nei social dove un’ora fa sembra già un tempo passato e dimenticato; questo forse è uno dei problemi maggiori. E il teatro invece racconta la storia in maniera straordinaria, non solo perché ha un valore etico, ma anche perché ha una forza artistica che tutto il resto non ha, cioè il recuperare qualcosa che noi abbiamo dentro, nel nostro intimo, ma che dimentichiamo. Questo tipo di teatro va a toccare delle corde che appartengono a tutti quanti noi, che però vengono troppo spesso accantonate perché sembrano lontane, distanti. Nel momento in cui le si va a raccontare gli spettatori si immergono totalmente nel racconto perché è qualcosa che appartiene a tutti. In particolare per Il fulmine nella terra, la storia sembrerebbe interessare soltanto agli irpini, ma non è così perché lì si parla di un evento che ha riguardato tutta la comunità nazionale e l’Italia intera. Si tratta di una memoria collettiva che spesso viene dimenticata, trascurata, perché ricordare è un atto anche creativo nel senso che richiede uno sforzo da parte delle persone, richiede un continuo confronto col passato, mentre spesso si preferisce dimenticare. Non mi riferisco soltanto alle cose brutte, intendo “dimenticare” in genere perché è molto più semplice vivere nell’ignoranza, nell’indifferenza, piuttosto che intraprendere un tipo di percorso che ognuno di noi dovrebbe iniziare.

Qual è il tuo rapporto con i testi classici, dal tuo adattamento dell‘Antigone di Sofocle (Antigone 1945) alla cura della regia di testi, ad esempio, di Molière e Pirandello?

I classici hanno lo stesso valore della storia, ma è come se fossero l’altra faccia di quello che ho detto prima, non c’è soltanto un “noi” che vive nel presente e che dimentica il passato. Ci sono tracce del passato che invece sono ancora attuali, e che sono rappresentate dai classici. I classici sono straordinari da questo punto di vista perché in realtà sono sempre attuali, proprio perché sono classici. Nel rapporto con i classici c’è la straordinaria capacità di andare a trovare in queste opere, anche lontanissime nel tempo, elementi che invece parlano di noi e che ci dicono qualcosa in più di noi. Bisogna andare a cercare questo “qualcosa” in quanto il rapporto con i classici è molto legato alla riscrittura e la riattualizzazione, alla trasformazione dell’opera scritta nel Settecento; per esempio l’Antigone scritta duemila anni fa, non può essere immediatamente legata a noi. Bisogna sempre operare un lavoro in quel caso di riscrittura, a volte di regia, che vada a trovare all’interno di quel testo la chiave, quel qualcosa che ci parla ancora di noi e che è universale. I classici hanno questo di straordinario: l’universalizzazione del loro messaggio.

Sembra emergere dai tuoi testi una volontà di rendere vivo, in qualche modo, il patrimonio storico, artistico, letterario e teatrale; il tutto si riunisce in una sorta di “teatro del mondo” che sa guardare ai vari aspetti della vita: dall’ambito privato a quello pubblico dei protagonisti dei tuoi drammi. A tal proposito parlaci delle verità di questo “antico presente”.

In genere nei miei testi ci sono dei temi comuni come la memoria e l‘identità perché tutti i personaggi sono alla ricerca di un’identità. L’altro tema è dato dai rapporti di potere, che anche è presente in Antigone 1945. Sono questi i tre temi sui quali mi muovo, nel senso che se si va a guardare i diversi argomenti, anche trattando di Van Gogh o delle arti figurative, è questo che ritorna sempre. Con l’obbiettivo sempre di essere aperto al pubblico, che è poi l’idea del TRAM. Noi facciamo spettacoli originali, inediti, innovativi, alternativi, off, però siamo lontani dal teatro di ricerca, quello un più criptico, esclusivo per gli addetti ai lavori. Crediamo in un’idea di teatro che comunque sia fondamentalmente comunicazione. E così torniamo alla domanda di prima: da una parte ci allontaniamo, dall’altra andiamo nella direzione di spettacoli che sappiano o abbiano qualcosa da dire.

Ringraziamo Mirko Di Martino per l’intervista

A proposito di Salvatore Di Marzo

Salvatore Di Marzo, laureato con lode alla Federico II di Napoli, è docente di Lettere presso la scuola secondaria. Ha collaborato con la rivista on-line Grado zero (2015-2016) ed è stato redattore presso Teatro.it (2016-2018). Coautore, insieme con Roberta Attanasio, di due sillogi poetiche ("Euritmie", 2015; "I mirti ai lauri sparsi", 2017), alcune poesie sono pubblicate su siti e riviste, tradotte in bielorusso, ucraino e russo. Ha pubblicato saggi e recensioni letterarie presso riviste accademiche e alcuni interventi in cataloghi di mostre. Per Eroica Fenice scrive di arte, di musica, di eventi e riflessioni di vario genere.

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