Con il nome Technicolor si raggruppano tutti quei procedimenti utilizzati nell’ambito del cinema a colori. Il nome deriva dall’omonima azienda, la Technicolor Motion Picture Corporation, fondata nel 1914 da Herbert Kalmus, Daniel Frost Comstock e W. Burton Wescott.
Indice dei contenuti
Processo | Caratteristica chiave e innovazione |
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Processo 1 (1917) | Sintesi additiva: due negativi (rosso/verde) proiettati da un proiettore speciale. |
Processo 2 (1922) | Sintesi sottrattiva: due positivi colorati e incollati insieme per creare una singola pellicola a colori. |
Processo 3 (1928) | Tecnica del dye-transfer: i coloranti venivano trasferiti su una pellicola vergine, eliminando i problemi di spessore. |
Processo 4 (1932) | Three-strip: utilizzo di tre pellicole in bianco e nero (rosso, verde, blu) per uno spettro cromatico completo e vivido. |
Processo 5 (1954) | Monopack: ripresa su un’unica pellicola a colori (Eastman Color), da cui si ricavavano le matrici per il dye-transfer. |
I primi tentativi di colorazione e il Technicolor process 1
Fin dalla nascita del cinema si cercò di inserire il colore nella pellicola. I metodi iniziali erano il viraggio (immersione in un’unica tinta) o la colorazione manuale. Un primo procedimento fu il Kinemacolor (1908), che usava filtri rossi e verdi in proiezione per creare l’illusione del colore. Il primo film girato con questo formato fu A Visit to the Seaside (1908).
Nel 1917, la Technicolor Motion Picture Corporation introdusse il Technicolor Process 1. La tecnica, basata sulla sintesi additiva, consisteva nel riprendere su una pellicola in bianco e nero attraverso un prisma che divideva la luce in due fasci, filtrati in rosso e verde. I due negativi venivano poi proiettati simultaneamente con filtri corrispondenti, ma il sistema richiedeva una calibrazione costante per evitare immagini fuori sincrono. Fatta eccezione per il film di debutto, The Gulf Between (1917), il Process 1 non fu più utilizzato.
Il Process 2: il primo sistema sottrattivo
Nel 1922 fu introdotto il Technicolor process 2, il primo basato sulla sintesi sottrattiva. Dai negativi di selezione rosso e verde si ottenevano due positivi sottili che venivano colorati chimicamente (uno in rosso-arancio, l’altro in blu-verde) e poi incollati dorso contro dorso. Questo creava una singola striscia di pellicola proiettabile con proiettori standard. Il metodo presentava però dei limiti: la pellicola incollata tendeva a deformarsi (“cupping”) e a graffiarsi. Nonostante ciò, fu usato in film come Fior di Loto (1927).
Il Process 3: la rivoluzione del dye-transfer
Il Technicolor process 3 (1928) risolse i problemi del precedente. La novità fu la tecnica del dye-transfer (“trasferimento di coloranti”). Invece di incollare due pellicole, si creavano delle matrici in gelatina per ogni colore. Queste matrici venivano imbevute nei rispettivi coloranti (ciano e magenta) e poi stampate per contatto, una dopo l’altra, su un’unica pellicola vergine. Questo metodo garantiva colori stabili e una pellicola di spessore standard. Il primo film a usare questa tecnica fu I Vichinghi (1928), ma la Grande Depressione ne limitò l’uso. L’ultimo fu La maschera di cera (1933).
Il Process 4: l’apice del Three-strip
La vera rivoluzione arrivò nel 1932 con il Three-strip Technicolor, o Process 4. Una nuova, ingombrante cinepresa esponeva simultaneamente tre pellicole in bianco e nero attraverso un prisma. Una pellicola registrava il verde, mentre le altre due, in un bipack, registravano il blu e il rosso. Da questi tre negativi si creavano tre matrici per il dye-transfer con i colori complementari: ciano, magenta e giallo. La combinazione dei tre colori permetteva di riprodurre per la prima volta l’intero spettro cromatico con una saturazione e una brillantezza senza precedenti, come spiegato da archivi tecnici come l’American Widescreen Museum.
Il Technicolor nel cinema d’animazione e nei film live-action
A causa dei costi, il primo settore a impiegare massicciamente il three-strip fu l’animazione. Walt Disney firmò un’esclusiva e lo usò per le sue Silly Symphonies, come Flowers and Trees (1932), primo corto a vincere un Oscar. Il successo planetario di Biancaneve e i sette nani (1937), primo lungometraggio animato, decretò il trionfo del Technicolor, come celebrato dal Walt Disney Family Museum. Nel cinema live-action, l’espressione massima delle sue potenzialità si ebbe con Il Mago di Oz (1939) e la celebre sequenza in cui Dorothy passa dal Kansas in bianco e nero al mondo colorato di Oz, una potente metafora del passaggio tecnologico.
Il Process 5: la pellicola monopack
Dagli anni ’40, la concorrenza di pellicole a colori più pratiche come il Kodachrome si fece sentire. La Technicolor si adattò con il Process 5 (usato dal 1954), detto monopack. La ripresa avveniva su un unico negativo a colori (come l’Eastman Color), ma il processo di stampa utilizzava ancora il collaudato sistema del dye-transfer per creare le copie da proiezione. Questo garantiva la stabilità e la vividezza dei colori tipiche del Technicolor, ma con la praticità di una cinepresa standard. Molti film usarono questo sistema, tra cui Suspiria di Dario Argento (1977).
Il Process 6 e l’era digitale
L’ultimo processo, il process 6, fu introdotto nel 1997. Era una versione perfezionata e più economica del dye-transfer, usata principalmente per il restauro di classici come Via col Vento e Apocalypse Now Redux, e per nuovi film come Pearl Harbor (2001). Tuttavia, il suo successo fu breve. La pellicola stessa stava per essere soppiantata dall’avvento del cinema digitale. Oggi, il marchio Technicolor sopravvive come una delle più grandi aziende di post-produzione e servizi digitali per l’industria cinematografica, ma il processo chimico che ha reso iconici i suoi colori appartiene alla storia.
Ciro Gianluigi Barbato
Fonte immagine copertina: https://www.videoblocks.com/video/the-technicolor-logo-hmqnwldimjdbu0z7s
Articolo aggiornato il: 10/09/2025