La giustizia non esiste, un libro autobiografico, di dolore e di lotta senza sosta, scritto da Gennaro del Prete, figlio di Federico del Prete, sindacalista ucciso per mano della camorra, è stato presentato mercoledì 19 novembre 2025 alla Feltrinelli di Caserta. L’evento è stato moderato dall’avvocato Angela Foggia e arricchito dagli interventi del Commendatore della Repubblica Franco Musto e dal colonnello Biagio Chiariello. Grazie alle testimonianze dei presenti, l’incontro si è trasformato in un invito a riconoscere e inseguire la giustizia vera. Non quella istituzionale, ma quella che restituisce dignità.
Il sacrificio di Federico
18 febbraio 2002. 19:30 circa. Federico si trova ancora in ufficio; il giorno seguente avrebbe dovuto testimoniare in un processo contro un vigile urbano di Mondragone. Federico, un semplice mercataro, una persona innocente, generosa, sempre pronta a difendere tutti i lavoratori onesti come lui. C’è, tuttavia, chi lo considera un ostacolo, un elemento da eliminare. Improvvisamente, un uomo irrompe nell’ufficio e lo colpisce con cinque colpi mortali. Per aver rincorso la giustizia, la legalità, Federico ha pagato con la sua vita. Tuttavia, il lutto, il dolore non hanno bloccato Gennaro. Nonostante le molteplici porte chiuse e le ingiustizie subite, è riuscito a tramutare questo fuoco distruttivo in fuoco che riscalda, che rigenera.
Ritrovare dignità e restituire dignità
Gennaro sperimenta fin da subito ingiustizie, anche nel momento di massimo bisogno, anche da coloro che dovevano stargli vicino. Anche dallo Stato, secondo cui non risultava come figlio di suo padre perché fiscalmente non a carico, e per questo non poteva ricevere alcun tipo di risarcimento. È proprio in questo momento che Gennaro decide di non rimanere più nel silenzio, di non chiedere più il permesso per esistere. Sente l’urgenza morale di parlare della sua esperienza, delle ingiustizie subite, e non lo fa per stare sotto i riflettori, ma per ricostruire una dignità che gli è stata strappata e per mantenere vivo il ricordo del padre. Nella sua solitudine e nel suo dolore, riesce a ritrovare un barlume di speranza: realizza che i ragazzi a cui raccontava la sua storia lo ascoltavano interessati, che aveva la capacità di stare accanto a coloro che avevano bisogno di conforto. Gennaro diventa un messaggio di speranza nonostante tutto. Un modo per dire a coloro che hanno preso la vita di suo padre: «Non avete ammazzato nessuno, il ricordo di mio padre vive». Per questo, nasce il suo libro La giustizia non esiste: sente il forte bisogno di ricominciare da capo e riprendersi la dignità che è stata negata a lui e a suo padre. Gennaro non si ferma alla sola testimonianza: si impegna attivamente al fine di dare un esempio, di dare nuove possibilità a chi non ha visto altro che violenza. Senza mai rinunciare alla sua dignità, ha mostrato una nuova strada, quella della legalità, a chi non riusciva a vedere un futuro. Ha dimostrato che non è mai tardi per cambiare, per ritrovare sé stessi e ricostruire da ciò che è stato distrutto. Nel suo libro ricorda un episodio in particolare: un ex boss, che grazie al suo aiuto è riuscito a trovare una nuova strada verso la legalità, si commuove nel constatare che, nonostante Gennaro sia stato ferito dallo stesso sistema che lui alimentava, con dignità gli ha restituito un futuro, senza mai sminuire il suo nome e quello di suo padre.
Fare il proprio dovere ma piano piano
La forza e la determinazione di Gennaro nel portare avanti la memoria del padre non da tutti è stata vista come qualcosa di positivo. Molti, anche semplicemente dopo aver capito chi fosse, si chiudevano in silenzi apatici, in sguardi abbassati. Il prezzo da pagare per essere stati coerenti. Tanto in famiglia quanto in ambito lavorativo, spesso hanno tentato di metterlo a tacere perché diventato troppo rumoroso, troppo scomodo, in una società che non vuole sentire parlare di dolore. Le stesse istituzioni che dovevano proteggerlo più e più volte hanno mostrato un lato che celavano: un perbenismo di facciata, uno spirito contro la mafia ma solo in parole, mai con i fatti. Durante la sua carriera militare hanno anche provato a trasferirlo all’estero, mostrando puro menefreghismo nei confronti della sua storia e della storia di suo padre. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Gli interventi del Commendatore Franco Musto e del colonnello Biagio Chiariello hanno portato alla luce il marcio che si trova all’interno degli uffici istituzionali. Un sistema che all’esterno si schiera contro ogni tipo di corruzione, ma che in alcuni casi, di nascosto, la alimenta. Musto parla di persone che «cercano e desiderano solamente una poltrona, invece di stare sul campo». Il colonnello Chiariello racconta della sua lotta contro l’ipocrisia, soprattutto di chi indossa una divisa e non esegue il proprio dovere come dovrebbe. Racconta di come i primi nemici siano stati proprio i colleghi in alcuni casi. Per aver fatto arrestare dei colleghi corrotti, riceve minacce di morte e rimane senza alcun tipo di protezione. Ma ciò non lo ha trattenuto dal compiere il suo dovere: quello di rincorrere la legalità conservando la propria dignità e quella degli imputati. Cercare giustizia non vuol dire imporsi con freddezza ma avere sensibilità, rimanere coerenti nei propri valori e, in molti casi, affrontare la solitudine che ne consegue per non essersi piegati. Come scrive Gennaro nel suo libro, «Lì l’aria è più pulita. Lì, almeno, il male non si finge bene».

In quest’occasione abbiamo avuto il grandissimo piacere di intervistare l’autore Gennaro del Prete e conoscere ancora più da vicino la sua storia e i valori per cui combatte ogni giorno.
Nelle nostre realtà l’indifferenza è all’ordine del giorno. Cosa crede sia importante fare per evitare di intraprendere questa strada per comodità?
La sensibilizzazione dei giovani è fondamentale. I ragazzi devono comprendere che l’unica strada per avere un futuro migliore è quella dell’onestà e della legalità. Legalità intesa come scelta di vita, per la tutela dei diritti costituzionali, per la tutela dei diritti umani, e soprattutto una sensibilizzazione che parte dalle scuole. Una scuola che sicuramente non è quella di adesso. Deve essere una scuola diversa, improntata più sui diritti umani e sulla fede per la nostra Costituzione. È solo raccontando le storie di Giovanni Falcone, la storia di mio padre, di uomini soli che si impegnano per la giustizia e per la verità, che possiamo raggiungere in futuro uomini maturi e maggiormente consapevoli della strada da intraprendere.
Lei ha trasformato il suo dolore in lotta e impegno attivo. Non è per tutti così. Secondo lei, la criminalità organizzata conta sul dolore come arma per mettere a tacere le persone?
Assolutamente sì, perché la leva della paura è stata sempre il cardine che la criminalità organizzata ha usato, anche come esempio, affinché altre persone evitino di denunciare. L’omicidio di mio padre Federico, oltre a doverlo mettere a tacere nella giornata prima del processo, era anche di monito a tutta la categoria degli ambulanti. Le confermo che ancora la paura e l’intimidazione viene utilizzata affinché i cittadini non denuncino.
Lei considera il suo superamento del dolore come una parziale vittoria su chi ha preso la vita di suo padre?
Il dolore non si dimentica mai. Si trasforma. Si impara a conviverci tutti i giorni. Ho perso mia figlia un mese fa, quindi purtroppo col dolore ci convivo. Sicuramente la trasformazione della mia storia in qualcosa di positivo ha dato modo di comprendere che c’è un’opportunità di riscatto per le tragedie. Per me è stato un modo di riprendermi tutto quello che non solo la vita mi aveva tolto, ma anche la camorra mi aveva tolto. È un processo doloroso, difficile, ma non impossibile. Ci vuole solamente tanta volontà e tanta capacità di canalizzare tutte quelle energie negative che possono provenire da un lutto così tragico.
La mediazione e l’amore sono elementi fondamentali per creare un ambiente proteso verso la crescita. In che modo possiamo concretamente applicarli nella lotta contro la criminalità organizzata?
Mi sono reso conto nella mia esperienza professionale di funzionario di servizi sociali presso il Ministero della Giustizia, che molte persone realmente cambiano. Tante no, perché tante scelgono la strada più facile. Come diceva Dostoevskij «La strada è larga, la via è in discesa, ma porta alla disperazione di non aver amato quella». Altri invece, a causa di storie simili alla mia, di figli lasciati soli dai genitori, di figli cresciuti senza padre, o di figli cresciuti in famiglie violente, hanno in qualche modo canalizzato quell’energia nella commissione di un reato. Perché non hanno avuto nessuno che ha dato loro un’opportunità. Durante il mio lavoro ho visto ragazzi che, grazie alla mia vicinanza, sono riusciti a trovare un’opportunità, ma anche semplicemente sono riusciti ad essere ascoltati, ad essere umanizzati e non carcerizzati. Hanno trovato un’opportunità, si sono sentiti degli uomini. Hanno iniziato a capire che il reato non porta da nessuna parte. Quando noi diamo possibilità di ravvedimento e di cambiamento stiamo compiendo un nostro dovere.
Lei ha affermato in passato che possiamo sperare in un futuro che noi dobbiamo preparare. A che punto ci troviamo di questo percorso?
Mi duole dirlo, ma dopo quello che è successo negli ultimi anni, sia nella situazione pandemica gestita in maniera oltraggiosa per i diritti umani, sia per ciò che continua a succedere in Palestina, credevo di non vivere mai quello che ho vissuto e sto vivendo in questi tempi, perché sono cresciuto con i valori che mi hanno insegnato a scuola, di non commettere più guerre inutili e genocidi. Quando ho iniziato a vedere e a capire cosa stesse succedendo, la mia convinzione è quella di dover iniziare tutto da capo. Perché credevo che dagli errori del passato, forse, non si sarebbe ripetuto. Come credevo che dall’omicidio di Falcone, Paolo Borsellino, il giudice Rosario Livatino, non saremmo poi arrivati a tutt’oggi, in cui ancora muoiono persone ammazzate. Le nuove generazioni devono continuare a lavorare su questo aspetto. Va detto e va insegnato il male. Va insegnato il pericolo al fine di poterlo evitare, che sia il favore fatto dal politico di turno per avere voti, il personaggio che ci vende la droga, i guadagni facili. È questo che la generazione attuale deve comprendere. Per raggiungere obiettivi importanti, in un mondo in cui i social offrono il guadagno facile, bisogna dare loro opportunità con cui si raggiungono obiettivi attraverso il sacrificio. Credo che il sacrificio possa far maturare coscienze civiche e possa costruire uomini pronti ad affrontare la vita in maniera diversa.
Prendere posizione e fare il proprio lavoro come si deve l’ha reso un personaggio scomodo. Parlando della nostra società, quali segnali d’allarme crede nasconda questo fenomeno?
Purtroppo, parliamo di un sistema di cultura di tipo popolare. Nel mio lavoro l’ho riscontrata tantissimo in casi di persone che hanno commesso reati proprio per l’appartenenza a una cultura popolare. La cultura popolare consiste nell’affidarsi al politico di turno, ad esempio, per avere concessioni di un diritto che noi già abbiamo, perché si ha la convinzione che quella sia la strada più breve. Il sistema della subcultura popolare può essere anche quello in cui si chiede all’amico di farci una raccomandazione, di farci avere un posto migliore. Questo è un sistema ben radicato. Per scardinarlo ognuno dovrebbe semplicemente fare il proprio dovere. Per questo motivo è importante costruire le nuove generazioni sul concetto di responsabilità individuale e collettiva, sui diritti umani, sulla legalità, sulla responsabilità civica. Perché altre culture europee, come quelle del nord, non distruggono le panchine nei posti pubblici, al contrario di ciò che succede qui? Perché qui c’è una coscienza civica che manca. C’è l’indifferenza di dire «non succede a me, l’importante è che succede agli altri», come con l’omicidio di mio padre. Nel mio libro ho raccolto il pensiero di Lévinas, vittima della Shoah, perché noi non riconosciamo più noi stessi negli altri. Siamo diventati delle monadi che non riescono più a dialogare con l’altra parte di noi, ovvero l’essere umano.
Fonte immagine in evidenza: archivio personale

