“Vivere la musica – Affrontare gli ostacoli, i cattivi maestri e le folli regole del gioco”, pubblicato da Il Saggiatore il 19 marzo 2020, è il frutto dell’urgenza, dell’impulso del cantautore e polistrumentista toscano Francesco Motta a voler parlare a tutti quelli che, come lui, hanno deciso di dedicare la loro vita alla musica, ma non sanno bene cosa fare. Perché la musica è empatia, e Motta ne ha da vendere.
Il libro del cantautore si potrebbe definire un reportage di viaggio, un diario di appunti di vita che fungono da ispirazione a tutti coloro che sentono la musica come lui, quelli che pensano che la musica non sia (solo) riflettori, applausi, interviste, palazzetti pieni, ma molto, molto di più, intimamente.
Vivere la musica, viaggiare con Francesco Motta
Chiunque abbia intrecciato una storia d’amore con la musica, a lettura terminata, avrà automaticamente ripulito il magazzino della propria memoria a lungo termine, per fare spazio a nuove salvifiche parole che porterà con sè.
Tutti i lettori li immagino ad indossare un grembiule, scarpe comode e guanti in gomma gialla, lunghi fino all’avambraccio, li vedo tutti ad aprire persiane e spalancare finestre, per far entrare una bella boccata d’aria nella mente. Li sento gettare pensieri rotti e pensieri ingombranti. Senza alcuna ombra di dubbio, con un panno, avran asciugato e lucidato ogni cosa. Avranno preso una matita e disegnato un segno su una parete, poi avranno afferrato un trapano e avranno avvitato una vite per appenderci le pagine 105 e 106 del libro “Vivere la musica”.
Le parole affisse? Eccole.
«La cosa che meno sopportavo a scuola erano proprio quelli che facevano di tutto per andare bene, quelli sempre sul pezzo, dritti sul trampolino, pronti a tuffarsi a candela nel grande stagno dei voti alti. Invidia? No, credo fosse un’affettuosa antipatia: non capivo a cosa servisse impegnarsi così tanto a studiare geografia o italiano, a risolvere equazioni senza senso e imparare a memoria i nomi di tutte le capitali, passare pomeriggi interi sui libri, in mezzo a centinaia di righe sottolineate e pagine di appunti, quando poi, nella vita «reale», molti di loro mi sembravano privi di qualsiasi altro tipo di passione. Per non parlare dei professori. La maggior parte di loro se ne stava lì in piedi a rovesciarci addosso date, nomi, nozioni, tutte cose che si perdevano nell’aria e di cui mi sfuggiva la necessità. Dentro di me viaggiavo chissà dove con la testa e mi domandavo: «Ma tutto questo, alla fine, a che cazzo serve?». A che cazzo serve. È la domanda che affossa o cambia per sempre la vita di chiunque.»
Leggere il libro di Motta significa intraprendere un viaggio in divenire che parte dal primo ascolto del cantautore del “Requiem” di Mozart – a soli sette anni – ai suoi cattivi maestri, agli ostacoli, alle difficoltà di attizzare la brace delle proprie passioni, agli scontri con gli altri, fino alla creazione di una “propria voce”. Solo dopo aver compreso che non c’è niente di punk nel disubbidire a comando. È punk, invece, avere le palle di voler essere se stessi, e far capire a chi ci vuole bene chi siamo.
Vivere la musica è un viaggio volto all’affermazione della propria identità, è il vagabondaggio attraverso posti sconosciuti che diventano tappe necessarie per la crescita artistica.
Motta intraprende una strada incerta, supera le insidie e approda a Itaca, proprio come Ulisse, eroe peregrino in mezzo al mare, che alla fine trova il suo porto sicuro. Come Giasone, che insieme ai suoi compagni, “gli argonauti”, parte alla ricerca del Vello d’oro o come Enea, profugo di guerra, che insieme ai suoi compagni si spinge alla volta del Mediterraneo, prima di approdare nel Lazio e fondare Roma.
Fonte immagine: ilsaggiatore.com