Copyright nella Black Music: analisi di un fenomeno

La storia iniziale del copyright  in ambito artistico è estremamente intricata, se poi ci si ferma ad esaminare il suo percorso all’inizio del ventesimo secolo nell’ambito specifico del copyright nella black music degli Stati Uniti, allora ci si trova davanti ad un percorso tanto sorprendente quanto forgiato da delle importantissime disuguaglianze che segneranno in maniera definitiva la storia della musica.

Cos’è il Copyright

Il copyright è “il diritto che protegge la proprietà intellettuale degli autori, offrendo loro il diritto esclusivo di utilizzare e distribuire le proprie opere musicali”, ne consegue che “per utilizzare legalmente una canzone protetta da copyright, è necessario ottenere una licenza dell’autore o dalla sua società di gestione”. Inoltre il copyright “protegge sia le composizioni musicali (melodie, testi) che le registrazioni audio”. La prima legge sul copyright nasce in Inghilterra nel 1710 sotto il nome di Legge della Regina Anna: questo atto legislativo garantiva agli autori il diritto esclusivo di pubblicare e controllare la riproduzione delle loro opere. Negli Stati Uniti invece la prima legge risale al 1790, il Copyright Act, che, con qualche differenziazione, si allinea al principio inglese.

Copyright nella black music:  teoria e  pratica

Il principio ideologico dal quale nasce la legge del copyright è quanto mai nobile e “neutral race”: la creazione, l’idea artistica, la produzione esclusiva di arte assolutamente nuova finalmente è salva da sciacallaggio, plagio o da appropriazioni indebite da terze parti; eppure nel momento in cui la legge entra nella dimensione sociale, ecco che le prime crepe iniziano a diventare visibili e poi sempre più spesse col passare degli anni. Questo è quello che è successo negli Stati Uniti, in maniera oltremodo evidente, nella prima metà del ventesimo secolo quando le comunità artistiche afroamericane si sono viste letteralmente espropriare una fetta importante del loro contributo in ambito musicale.

Premesse storiche importanti

Quando ci riferiamo alle produzioni musicali afroamericane di fine ‘800 inizi ‘900 dobbiamo tenere presenti dei punti importanti: in primo luogo tutto ciò che producevano e trasmettevano in ambito musicale era solo di tipo orale; nessuno scriveva musica, nessuno scriveva testi, ma gli artisti si esibivano davanti ad un pubblico ed era questo il modo in cui le canzoni venivano eseguite, promosse e quindi poi  rimaneggiate facilmente da altri. Altro aspetto fondamentale della questione è la posizione sociale che occupavano gli afroamericani in quegli anni: anni di segregazione, violenza, sistematico sabotaggio a qualsiasi tipo di approccio all’istruzione e quindi con un conseguente analfabetismo diffuso. Tutto questo ovviamente portava ad una assoluta mancanza di protezione legale (di qualsiasi tipo) per queste comunità. Certo negli stati del sud la situazione era più grave, ma il razzismo era diffuso anche negli stati del nord. 

Copyright nella black music e il “Great theft”

Dopo queste premesse è facile immaginare il destino del copyright nella black music: la loro musica in quegli anni iniziò a circolare in maniera rapida, ed essendo qualcosa di totalmente nuovo, che si distaccava in maniera decisiva da tutto un retaggio precedente legato alla musica classica, agganciò la curiosità e l’interesse di un pubblico che in principio, silenziosamente, iniziò ad amare questo nuovo modo di fare musica. Eppure la strada di questi innovatori dell’arte della musica era taciuta perché, in una società impregnata dalla cultura WASP (White Angle Saxon Protestant), non c’era spazio per il reclamo di alcun tipo di diritto da parte di artisti, quindi compositori e musicisti, afroamericani. Come da principio nel blues fino ad arrivare al doowop (e non solo), essendo le esecuzioni di tipo solo orale ed proposte troppo spesso per le strade, va da sè che chiunque potesse attingere da quel calderone. Inoltre le case discografiche più importanti non scritturavano artisti afroamericani e quelle che lo facevano avevano a capo un bianco e quindi la somma è presto tratta. Il rock and roll diventa presto “bianco”, il blues di Muddy Waters o Howlin Wolf getterà le basi di gruppi come Rolling Stones e Beatles, la sensualità di Donny Til diventerà la peculiarità di Elvis Presley, il doowop de The Teenagers sarà la maglia su cui si tesserà la musica dei Beach Boys… tutto sulle note taciute di un esercito musicale di afroamericani che scrivevano senza nome e senza merito. 

Chuck Berry vs The Beach Boys

Sarà solo nel 1963 che rispetto alla questione del copyright nella black music, un afroamericano, Chuck Berry, porterà un gruppo bianco in tribunale, The Beach Boys: il brano in questione era la canzone editata da The Beach Boys, Surfin USA, al quale Berry contestava la rielaborazione, con un nuovo testo della sua Sweet Little Sixteen. La causa si concluse con l’accreditamento di Surfing USA a Berry e Wilson, dove Berry ricevette il credito di composizione della canzone.

Conclusioni

Se pensiamo alla musica di cui usufruiamo oggi le radici sono tutte lì, tra quelle strade, tra quella povertà, in quegli anni di discriminazione e violenza: il gospel, lo spiritual, il blues, il rock and roll, il doowop, la Motown,  la disco, a finire all’hip hop e il rap di questi ultimi anni. Dobbiamo tutto a loro. In molti documentari o podcast, rispetto alla questione del copyright nella black music viene chiesto ai pochi ancora in vita che vissero quel momento storico cosa ne pensino del “grande furto” che hanno subito in quegli anni: i più rispondono in maniera amaramente ironica ma molto intelligente che “si sentono orgogliosi del contributo che hanno fornito alla musica mondiale e che però ricevere qualche dollaro durante quegli anni difficili gli avrebbe fatto comodo”. A proposito di ironia  ricordiamo anche che, nel garbuglio del “chi ha scritto cosa e quando”, c’erano gli stessi artisti afroamericani che molto spesso discutevano (in tribunale e non) sulla paternità di alcune canzoni, come magistralmente mostrato in una manciata di secondi del film “The Blues Brothers”, nella scena in cui compare lo straordinario John Lee Hooker che si esibisce per strada cantando la “sua” Boom Boom: alla fine dell’esibizione, quando ringrazia gli spettatori c’è questo breve scambio di battute tra lui ed una persona del pubblico che riassumono perfettamente questo altro aspetto della storia del copyright.  JLH “I wrote this song back in the 50s”  – “No, you didn’t” e inizia una discussione che prende rapidamente la forma quasi di una rissa: la scena viene lasciata così, con una discussione ancora in atto e con il dubbio irrisolto di chi abbia scritto veramente il brano.

Fonte immagine: Pixabay (nuno_lopes ; https://pixabay.com/it/users/nuno_lopes-27925/)

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