Dal 6 giugno al 13 luglio al Museo Duca di Martina, la mostra «Delitto Napoletano» di Nicola Vincenzo Piscopo, a cura di Alessandro Calvanese, mette in scena la scomparsa del Vesuvio, riscrivendo così il paesaggio partenopeo.
Cosa accadrebbe se, d’improvviso, Napoli perdesse il suo simbolo più riconoscibile? Se il Vesuvio, icona per eccellenza del paesaggio partenopeo, scomparisse dalle vedute storiche, dai souvenir, dalle immagini che da secoli hanno costruito l’immaginario di una città intera? È questo l’interrogativo che anima «Delitto Napoletano», la nuova mostra personale di Nicola Vincenzo Piscopo, a cura di Alessandro Calvanese, visitabile dal 6 giugno al 13 luglio 2025 negli spazi del Museo Duca di Martina in Villa Floridiana. All’inaugurazione, tenutasi venerdì 6 giugno, hanno partecipato, oltre all’artista, la funzionaria referente della Villa Floridiana Amalia Bizzarro, il curatore Alessandro Calvanese, lo sponsor della mostra Francesco Sepe. La mostra è realizzata in collaborazione con la Direzione regionale Musei nazionali Campania e i Musei Nazionali del Vomero.
All’ombra del Vesuvio
Il Vesuvio è una proiezione culturale, un simulacro, un’immagine sedimentata nel tempo. Un elemento naturale che ha inciso così profondamente nell’identità visiva della città al punto da confondersi con essa. La presenza del vulcano è costante eppure instabile, un silenzio che può farsi eruzione. Curzio Malaparte, scrivendo dopo l’eruzione del ’44, ne fa un’entità mostruosa: «Quello spettrale Cesare dalla testa di cane, seduto sul suo trono di lava e di cenere, spaccava il cielo con la fronte incoronata di fiamme, e orribilmente latrava». Ma il Vesuvio racchiude in sé l’anima romantica e malinconica del popolo napoletano. Matilde Serao, nelle sue Leggende napoletane, evocava l’immagine del vulcano come un cuore spezzato, incapace di trovare pace: Vesuvio e Capri erano due giovani che amavano perdutamente. Lui, un giovane nobile, lei una fanciulla di straordinaria bellezza. Il loro amore fu ostacolato, al punto da separarli per sempre. Straziata, Capri si gettò nel mare del Golfo di Napoli. Dal suo corpo nacque l’isola azzurra che porta il suo nome. Vesuvio, lacerato dal dolore, si trasformò in una montagna. Il fuoco che gli brucia dentro non è altro che la sua rabbia e il suo amore trattenuto. Da allora si guardano da lontano, divisi per sempre nel corpo, ma mai nello spirito. Questa duplice natura – bellezza luminosa e catastrofe imminente – definisce l’immaginario di Napoli fin dal Grand Tour. Il Vesuvio, icona del Meridione, veniva ritratto in gouache, acquerelli e incisioni, trasformato in oggetto del desiderio estetico e scientifico. Era la montagna-miracolo, il ricordo infuocato che i viaggiatori europei riportavano a casa sotto forma di immagine, parola, reliquia.
La cancellazione del Vesuvio operata da Nicola Vincenzo Piscopo non è un atto iconoclasta, ma una sospensione critica dell’abitudine visiva. Il paesaggio napoletano, privato del suo emblema più riconoscibile, appare improvvisamente spoglio, disorientato, vulnerabile. È in quella sottrazione che si apre uno spazio nuovo per ripensare il paesaggio napoletano. Come spiega Piscopo: «eliminare il Vesuvio è una sorta di sineddoche del lutto, perché tutti siamo figli del Vesuvio. La sua entità ci protegge ma allo stesso tempo ne abbiamo paura. Ho realizzato una serie di opere che affrontano questo lutto in maniera ossessiva e ripetitiva. Il lutto viene attraversato, ma lascia un vuoto dentro con cui dobbiamo fare i conti».
Un paesaggio mutilato, un’immagine sovvertita
Il giallo si apre con un colpo di scena: il Vesuvio è scomparso. Un’assenza che lascia tutti spiazzati. Il visitatore, come un detective, è chiamato a indagare lungo il percorso espositivo, per arrivare alle proprie conclusioni. Ma il noir non tratta dell’omicidio del vulcano, bensì di quello della sua rappresentazione. A cadere è lo stereotipo di una Napoli da cartolina, ripetuta all’infinito in una narrazione cristallizzata nel tempo. Un delitto «tanto politico quanto poetico, tanto drammatico quanto ironico» come lo descrive il curatore della mostra.
La location non è scelta a caso. La Villa Floridiana, situata nel cuore del quartiere Vomero, è da sempre uno dei punti panoramici più suggestivi della città, un angolo sospeso tra natura e veduta affacciato sul golfo, eppure, da questa visuale è impossibile scorgere il Vesuvio. In questa coincidenza si inserisce la poetica dell’assenza. Napoli, città visivamente ipertrofica, viene privata del suo punto di riferimento, per essere restituita a uno sguardo nuovo, innovatore.
Attraverso l’ossessione per il paesaggio e la sua trasfigurazione in souvenir – da quelli romantici del Grand Tour a quelli contemporanei (calamite e quadretti a buon mercato acquistabili nelle bancarelle) – il colosso di pietra e lava diventa metafora di un’identità venduta, ripetuta, consumata fino alla nausea. È una Napoli costruita sulla dimensione del turista, che ignora i bisogni del cittadino per vendersi a buon mercato. «Da pittore, considero questa mostra come un’estrema ipotesi sul paesaggio napoletano, ormai abusato e consumato dal turismo, ridotto a un’immagine da vendere al mondo. Ma a differenza di tante altre narrazioni, qui Napoli è raccontata dall’interno, con lo sguardo di un napoletano che vive quotidianamente questa città. Anche nella fatica di attraversarla, a volte, a causa del grande afflusso turistico. Eppure, allo stesso tempo, il turismo va anche ringraziato» spiega l’artista.
Un viaggio nell’era delle immagini
Le opere, tutte inedite, abitano il museo dal vestibolo al primo piano, in un dialogo continuo con il contesto e le porcellane del Museo Duca di Martina. Al piano terra, nel vestibolo, si trova il dipinto che dà il nome alla mostra, «Delitto Napoletano», rielaborazione di una foto scattata dallo stesso Piscopo diversi anni fa da via Aniello Falcone. Il quadro introduce il visitatore al contesto dell’esposizione, proponendo una delle più tipiche rappresentazioni paesaggistiche basate sul vulcano privata della sua presenza.
Salendo al primo piano si incontra «Tempesta nel Golfo di Napoli con naufragio di Salvatore Fergola», una rielaborazione del dipinto eseguito dal pittore ufficiale della corte dei Borbone nel 1867, e conservato a Gallerie d’Italia (la cornice, anch’essa rielaborata, riprende quella del quadro originale). Nell’opera di Fergola, la tempesta e il naufragio diventano allegoria visiva delle crisi e dei sommovimenti che agitavano il Regno dei Borbone. Ma nella versione di Piscopo, privata del Vesuvio, quel paesaggio perde ogni ancoraggio simbolico. In questa ricostruzione pittorica non vi sono più riferimenti riconoscibili. Ciò che resta è un paesaggio svuotato, sospeso, privo di coordinate politiche e narrative. Un golfo qualsiasi con il mare in tempesta. L’opera è al contempo un omaggio alla tradizione del vedutismo napoletano del Settecento e dell’Ottocento, e una riflessione critica sull’iconografia di Napoli.
La sala successiva è dedicata all’installazione ambientale «Nostalgia», composta da un proiettore a carosello che scorre lentamente ottanta diapositive risalenti agli anni ’70, raccolte, manipolate e rielaborate dall’artista. Le immagini, apparentemente familiari, sono in realtà soggette a un processo di alterazione visiva. Piscopo interviene su di esse trasformandole in falsi ricordi, in simulacri di una Napoli forse mai esistita. La sequenza scorre come una passeggiata a ritroso nel tempo, non tanto per rievocare un passato reale, quanto per costruire un archivio emotivo e distorto, che sollecita memorie inautentiche. Il lavoro attiva una forma di eramnesia (la nostalgia di qualcosa che non si è mai vissuto) e mette in scena il modo in cui le immagini, una volta interiorizzate, falsano la memoria collettiva. Napoli, qui, diventa una città immaginata, vista attraverso il filtro nostalgico di chi la ricorda senza averla mai veramente conosciuta, condizione in cui l’artista si riconosce: «Sono nato nel 1990, quindi non ho realmente vissuto la Napoli degli anni ’70. Quella nostalgia mi è stata trasmessa dai miei genitori, dal cinema, dalla letteratura, dai social… Tendiamo sempre a essere critici verso il nostro presente e nostalgici verso un passato che spesso non ci appartiene. Forse un giorno saremo nostalgici anche di questo periodo di floridezza culturale. Quella che ho rappresentato non è la mia nostalgia personale, mi faccio portavoce di una nostalgia collettiva. L’artista ha la responsabilità di non restare ancorato a sé stesso, ma di diventare simbolo dell’umanità. Per me, il concetto di identità non appartiene al singolo, ma alla collettività».
Successivamente è possibile ammirare «Grand Tour», un passepartout in cornice di radica che contiene stampe di gouache del XVIII e XIX secolo — materiali storicamente legati alla cultura del viaggio aristocratico europeo — e le sottopone a interventi pittorici mimetici. A prima vista, le immagini sembrano fedeli all’originale, vedute di Napoli, scorci del golfo. Ma anche in questo caso il Vesuvio scompare e l’armonia della composizione si incrina. Il Grand Tour diventa allora una riflessione sul turismo come costruzione simbolica, e sull’eredità visiva di Napoli come prodotto seriale, confezionato per lo sguardo straniero. «Eliminando un elemento fondamentale lo si mette in risalto» spiega l’artista. «Volevo parlare della problematica del quadro-cartolina. Quando si rappresenta il paesaggio napoletano, non si prova mai a uscire dallo stereotipo, piuttosto lo si abbraccia. Il mio è un intento diverso».
Infine, l’ultima stanza è dedicata all’installazione ambientale «Petit Tour», composta da una serie di tele di piccolo formato dipinte appositamente con un tono leggero e ripetitivo, come se fossero state realizzate da un artista di strada che dipinge frettolosamente per venderne il più possibile a turisti distratti. Le opere sono disposte sulle pareti secondo l’estetica di una quadreria ottocentesca — con un affastellamento di cornici e una disposizione ravvicinata – e dialogano con le raffigurazioni di Napoli presenti sulle porcellane esposte nelle teche presenti nell’ambiente. Piscopo gioca così sul confine tra arte e merce, tra memoria e consumo, trasformando l’ossessione contemporanea per il paesaggio instagrammabile in una riflessione sulla serialità visiva e sulla banalizzazione iconografica di Napoli, che da città reale si trasforma in superficie decorativa da collezionare. «Una mostra che vuole raccontare un’assenza con la stessa consistenza con cui per secoli è stata raccontata una presenza» afferma il curatore Alessandro Calvanese. «Piscopo non immagina un mondo in cui il Vesuvio non sia mai esistito, ma prende in esame paesaggi reali e ne rimuove il vulcano. In alcune immagini, si possono ancora scorgere i segni di un’eruzione, ma senza che il Vesuvio sia visibile. È proprio questa assenza a generare uno scarto percettivo destabilizzante».
Con «Delitto Napoletano», Nicola Vincenzo Piscopo compie un’operazione di sottrazione che diventa strumento di rivelazione. Eliminando il Vesuvio, l’artista ci costringe a riconsiderare lo sguardo automatico con cui osserviamo Napoli, e a interrogarci su ciò che resta quando le immagini che crediamo familiari vengono spogliate della loro retorica. In questo vuoto visivo e simbolico, la città si fa di nuovo spazio da abitare e da pensare. Forse più fragile, certo più reale. La mostra sarà visitabile fino al 13 luglio 2025, tutti i giorni dal mercoledì al lunedì, dalle 9.30 alle 17.00 (ultimo ingresso alle 16.00), previo acquisto del biglietto di ingresso al museo.
Claudio De Rosa