Dalla consapevolezza che esiste un momento nella vita di un’artista in cui si sente il bisogno di ricominciare, non per cancellare ciò che è stato, ma per riconoscere il percorso, accettarne le fratture e restituirle in musica, che nasce Keep walking, il nuovo EP di Irene Loche, in uscita venerdì 20 giugno per IRMA Records. Un lavoro che non cerca scorciatoie, che non ammicca, ma che si impone per la sua autenticità.
Registrato tra Los Angeles e Cagliari, il disco è una dichiarazione d’identità che attraversa blues, soul, folk e sonorità americana, con il contributo di musicisti del calibro di Leland Sklar e Steve Ferrone. La produzione, firmata da Massimo Satta e Steve Postell, accompagna una voce che non ha paura di mostrarsi vulnerabile, in bilico tra radici e futuro, tra silenzi che parlano e parole che pesano.
Keep Walking non è un semplice invito a resistere: è il racconto di chi ha continuato a camminare anche quando restare in piedi sembrava già un atto di coraggio.
Abbiamo avuto l’opportunità di intervistare Irene Loche, lasciandoci trasportare nel tumulto emotivo della sua musica.
Keep walking di Irene Loche: l’intervista all’artista
“Keep Walking” sembra un invito a non fermarsi, a resistere. Cosa significa oggi, per te, continuare a camminare in un mondo che sembra volerci far restare fermi o uniformati?
In realtà, il titolo Keep Walking non è nato come un messaggio da lanciare. È arrivato alla fine, quando le canzoni erano già lì. Ho capito solo dopo che quel titolo teneva insieme tutto ciò che avevo vissuto in quegli anni e che la vita stessa, nel bene e nel male, aveva in qualche modo “prodotto” questo disco insieme a me.
Keep Walking non parla di resistenza nel senso classico, e non è un invito motivazionale. È più una presa d’atto: sono ancora qui, ci sono passata dentro, a volte trascinandomi più che camminando. E continuare a farlo oggi, in un tempo che spesso ti chiede di semplificarti o di adattarti, per me significa restare in movimento, anche nei momenti più incerti. Non per arrivare da qualche parte, ma per non sparire dentro ciò che non ci somiglia.
Le tue canzoni parlano di trasformazione, silenzi che pesano quanto le parole, e scelte difficili. Quanto è stato complesso, nel tuo percorso, restare fedele a te stessa anche quando tutto intorno spingeva verso un’altra direzione?
È stato molto complesso, e lo è tuttora. Ci sono stati momenti in cui non riuscivo più a riconoscere la mia voce, né nella musica né nella vita. Quando tutto ti chiede di adattarti, di seguire delle regole non scritte, restare fedele a sé stessi diventa una scelta che può isolarti, ma è anche l’unica che ti permette di creare qualcosa che abbia senso. Questo EP è nato anche da un’esigenza di coerenza interiore, anche quando era scomoda. Per me fare musica non è mai stato un gesto decorativo, è sempre stato un modo per rimettere insieme i pezzi.
Il brano “Nothing to Say” nasce da una sorta di resa apparente, quel momento in cui il silenzio diventa una forma di lucidità. In un tempo in cui tutti sembrano obbligati a “dire qualcosa”, quanto è potente, oggi, scegliere di non parlare?
È potentissimo. A volte il silenzio è l’unico spazio in cui possiamo davvero ascoltare. Nothing to Say nasce da uno stato di frattura, di rabbia e di distanza, ma anche da una grande lucidità: quel momento in cui ti accorgi che non hai più bisogno di spiegare nulla, perché le parole non basterebbero comunque. Scegliere di non parlare, oggi, può essere un atto di forza e di pulizia.
Hai registrato tra Los Angeles e Cagliari, tra due mondi geograficamente e culturalmente distanti. Quanto queste due realtà hanno influenzato la scrittura e la produzione del disco? C’è un’idea di ponte, di frontiera superata, in questo?
Assolutamente sì. Los Angeles e Cagliari rappresentano due parti di me. A LA ho incontrato una comunità di musicisti che mi ha accolta con generosità, che ha creduto in questo progetto e gli ha dato forza e respiro. Cagliari, invece, rappresenta la mia radice, la mia terra, il luogo dove ho raccolto tutto e dato forma a quello che avevo dentro. Questo disco è un ponte non solo geografico, ma emotivo. È il risultato di uno spostamento fisico e interiore, di un’identità che non vuole più scegliere tra due mondi, ma che li abita entrambi.
La tua musica intreccia blues, soul, folk e americana: generi legati a storie di lotta, migrazione e radici profonde. Ti senti parte di questa tradizione anche nel raccontare il tuo tempo?
Sì, perché questi generi sono più di uno stile: sono una voce, un modo di attraversare le cose. Non ho mai scelto questi suoni a tavolino, sono venuti da soli, perché raccontano bene il mio modo di stare al mondo. C’è sempre qualcosa che viene da lontano, qualcosa che si sposta, qualcosa che cerca radici e allo stesso tempo prova a lasciarle andare. Mi sento parte di quella tradizione quando la uso per parlare di quello che vivo oggi, senza travestimenti.
Collaborare con musicisti come Sklar e Ferrone porta sicuramente spessore al progetto. Ma cosa ti ha colpito di più, nel confronto con loro, a livello umano o artistico?
La semplicità. L’umiltà con cui si mettono al servizio della musica. Leland è arrivato in studio con il suo basso in mano, senza custodia, con la leggerezza di chi ha fatto migliaia di dischi ma non ha mai perso il gusto di giocare. Steve ha portato una presenza enorme ma silenziosa, una precisione che non impone, ma sostiene. Lavorare con loro è stato un privilegio, ma anche una lezione di grande umanità e professionalità.
Sei un’artista indipendente, donna, chitarrista in un mondo ancora spesso dominato da dinamiche tradizionali. Il tuo EP è anche una presa di posizione? Un modo per affermare una voce fuori dallo schema?
In parte sì, ma non nel senso di una rivendicazione gridata. È una presa di posizione nel modo in cui ho scelto di esserci: con sincerità, senza filtri, senza dover dimostrare nulla a nessuno. Ho deciso di non seguire ciò che “funziona”, ma ciò che mi rappresenta. Essere una donna, indipendente, musicista, non è mai stato semplice, ma non ho mai voluto fare la mia musica contro qualcosa. La faccio per me, per chi si sente fuori posto, per chi sta cercando il proprio spazio senza dover cambiare pelle.
Vi invitiamo dunque ad ascoltare Keep walking di Irene Loche, non ve ne pentirete sicuramente.
fonte immagine: ufficio stampa