Finale di Familie Flöz arriva al Bellini dal 15 al 19 ottobre per celebrare il suo trentesimo anniversario. La prima mondiale di Finale apre il palcoscenico al pubblico del Bellini, facendo salire gli spettatori sulla scena e rendendoli partecipi del tragicomico processo di vivificazione di maschere-personaggi, più umane degli umani, fatte di cartapesta e carne.
Familie Flöz fa indossare agli spettatori i suoi muti scrigni portatori di storie. Ognuno può instaurare il suo rapporto con la maschera, che è un corpo invadente e ha in sé un proprio universo in procinto di esplodere.
Finale: storie senza parole
Finale di Familie Flöz è un’ouverture che dalla fine – una partenza, una malattia, una morte – ci riconduce, appunto, all’inizio di tutto: ai primordi della vita, all’origine del teatro, all’infanzia del bambino che non ha ancora appreso la parola. La scommessa più grande è quella di provare con l’intero corpo ad afferrare la purezza della verità e, per farlo, diventa necessario abbandonare l’individualità. Finale sbugiarda e demistifica l’ossessione, il male della contemporaneità: il voler essere a tutti i costi “io”, che limita l’uomo e lo snatura. Il problema per Familie Flöz non è la materia di cui siamo costituiti, ma piuttosto la nostra ingombrante dimensione individuale che fa di tutto per impossessarsene, che conduce l’uomo alla continua riaffermazione di sé e al conseguente allontanamento dalla propria essenza.
Le maschere di Finale tentano, infatti, di risanare un rapporto autentico con l’essenza e lo fanno raccontando delle storie in fieri, mettendo in scena frammenti di vite sull’orlo del precipizio. La scenografia è composta soltanto da varie cornici di dimensioni differenti. Cornici come “sale parto” dove si danno alla luce i personaggi. Uno scatto fotografico e ogni maschera si fissa per sempre in un’immagine, un volto che ha sempre la stessa espressione. Ogni maschera è una caricatura. L’ego degli attori viene sotterrato. Al performer-interprete non resta che provare a bucare lo schermo, uscire fuori dalla fissità della foto, cimentarsi nell’impresa impossibile di essere un assoluto, un niente e, al contempo, un tutto – oltre i rugosi lineamenti della propria maschera.
Le maschere: allusioni arbitrarie che conducono all’essenza

Finale è una carta bianca, un abbozzo di storie, che spetta al pubblico continuare a scrivere. Un dono di sentimenti universali, confusi e oscuri, una carrellata di istantanee gravide di simboli, capaci di dire ciò che si può solo vedere e percepire, quella «cosa esclusivamente in atto e, insieme, pratica» di cui è così difficile parlare.
Le maschere di Finale, ognuna chiusa nella propria individualità, riproducono la difficoltà che hanno gli esseri umani di compiere questa liberazione, tanto bramata quanto impossibile. Impossibile e necessaria. Una profonda crisi sconvolge queste tre storie che Finale ci vuole donare. Un rischio, un segreto si nascondono dietro queste anime perse, alienate e atomizzate come quelle che si incontrano, nei club sotto cassa, muoversi in maniera robotica e compiere gesti reiterativi.
In Finale alcune maschere hanno intrapreso il loro viaggio, sono sulla strada verso la salvezza. Una danza salvifica e tutto cambia: un passo a due da ballare al ritmo dei propri battiti, sincronizzati al suono della parola amore – che pure non viene mai pronunciata, ma a un punto dello spettacolo si sente nell’aria, aleggia tra la gente.
Un figlio, mentre la madre si avvicina al Finale della vita e il sipario si chiude sulla recita finora sopportata, si smaschera. Inizia a togliersi di dosso gli strati di grasso, il travestimento bizzarro – una personalità fittizia – e riscopre il contatto con la propria corporatura. Leggero rinasce. Ha il peso di un bambino appena nato.
Una giovane esploratrice è alla ricerca del senso della propria vita e si rifugia nella natura più selvaggia, entra in contatto con la propria anima e con il proprio animale, ma pure lo teme, ne è terrificata. Al contrario di chi senza pietà va a caccia della bestia, la ragazza si identifica con quest’ultima, riesce ad avere con lei una forma di comunicazione pre-linguistica, empatica, fisica e spirituale. Per farlo, però, deve sacrificare il suo volto, lasciare che diventi un tutt’uno con quello dell’animale. Solo così può aprire la strada al mistero, al tentativo ininterrotto di conoscere ciò che è altro da sé.
Finale di Familie Flöz è un esperimento incomprensibile se non si passa dalla vista alla percezione. È uno spettacolo dall’enorme potere simbolico, che si esprime per mezzo delle maschere e apre la sua sperimentazione allo spettatore, perché possa scriverne il finale. Del resto, come afferma Simone Weil, «un simbolo non opera alcuna trasformazione, non fa superare alcun limite, alcuna porta. Un simbolo è nell’anima, ed occorre qualcosa fuori dell’anima per tirarla fuori»: una storia (o tre), una messinscena.
La maschera in Finale è un’educazione dell’anima, un’attenzione a dissotterrare solo ciò che è reale ed essenziale. Familie Flöz restituisce vita a degli infiniti possibili che, a un primo sguardo sulla scena, paiono delle fotografie di parenti defunti e su questi personaggi cuce delle storie che ci accomunano tutti.
Quando lo spettacolo è finito, tutti gli attori in scena si mettono in fila e si prendono gli applausi. Sono solo cinque, ma a noi sembrava di aver visto almeno il doppio dei personaggi. Forse li abbiamo solo immaginati o la compagnia Familie Flöz è composta da trasformisti abilissimi. Chi lo sa: il Finale è aperto…
fonte foto: Archivio personale