Poesie di Leopardi: le 5 più belle

Poesie di Leopardi: le 5 più belle

Giacomo Leopardi è uno degli autori più significativi della letteratura italiana moderna. Massimo esponente della poesia romantica, le sue riflessioni sull’esistenza lo rendono anche un filosofo di notevole spessore. Le poesie di Leopardi, infatti, esprimono le sue considerazioni sulla condizione umana, basate su concetti fondamentali come la natura, la ragione, il vero e le illusioni.

Le 5 poesie in sintesi: un percorso tematico

Poesia Concetto leopardiano chiave
L’infinito La poetica del vago e dell’indefinito.
Alla luna La poetica della rimembranza.
La quiete dopo la tempesta La teoria del piacere come cessazione del dolore.
A se stesso Il pessimismo cosmico e la caduta delle illusioni.
Scherzo La critica alla poesia contemporanea e l’importanza del “labor limae”.

Testo e analisi delle poesie più belle

1. L’infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Analisi: forse la più celebre lirica leopardiana, “L’infinito” è il manifesto della poetica del vago e dell’indefinito. Un ostacolo fisico (la siepe) impedisce la vista, ma proprio per questo stimola l’immaginazione a creare “interminati spazi” e “sovrumani silenzi”. L’esperienza è duplice: prima spaziale, poi temporale, quando il rumore del vento evoca “l’eterno” e “le morte stagioni”. Il culmine è un’esperienza quasi mistica in cui il pensiero si annulla nell’immensità (“s’annega”), e questa perdita di sé è vissuta come un piacere: “e il naufragar m’è dolce in questo mare”.

2. Alla luna

O graziosa Luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva,
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto,
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, ché travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia stile,
o mia diletta Luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar l’etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor
lungo la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri!

Analisi: questo idillio è il cuore della poetica della rimembranza. La luna, testimone silenziosa e immutabile del dolore del poeta, diventa la confidente a cui egli rivolge i suoi pensieri. Il tema centrale è il piacere che deriva dal ricordo (“mi giova la ricordanza”), anche quando il ricordo è di un momento triste. Nella giovinezza, afferma Leopardi, il ricordo del dolore passato è dolce perché, pur persistendo l’affanno, la speranza nel futuro è ancora viva.

3. La quiete dopo la tempesta

Passata è la tempesta:
odo augelli far festa, e la gallina,
tornata in su la via,
che ripete il suo verso. Ecco il sereno
rompe lá da ponente, alla montagna:
sgombrasi la campagna,
e chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
risorge il romorio,
torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
con l’opra in man, cantando,
fassi in su l’uscio; a prova
vien fuor la femminetta a côr dell’acqua
della novella piova;
e l’erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero.
Ecco il sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. Apre i balconi,
apre terrazzi e logge la famiglia:
e, dalla via corrente, odi lontano
tintinnio di sonagli; il carro stride
del passeggier che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.
Sí dolce, sí gradita
quand’è, com’or, la vita?
Quando con tanto amore
l’uomo a’ suoi studi intende?
o torna all’opre? o cosa nova imprende?
quando de’ mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d’affanno;
gioia vana, ch’è frutto
del passato timore, onde si scosse
e paventò la morte
chi la vita abborria;
onde in lungo tormento,
fredde, tacite, smorte,
sudâr le genti e palpitâr, vedendo
mossi alle nostre offese
folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d’alcun dolor; beata
se te d’ogni dolor morte risana.

Analisi: la poesia è divisa in due parti. La prima descrive in modo idilliaco il ritorno alla vita di un borgo dopo un temporale. La seconda parte è una riflessione filosofica durissima: la gioia che proviamo non è un vero piacere, ma solo un “uscir di pena”. Il piacere è “figlio d’affanno”, una breve tregua dal dolore, che è la vera costante della vita umana. Con amara ironia, Leopardi si rivolge alla “natura cortese”, accusandola di concedere ai mortali solo la cessazione temporanea delle sofferenze.

4. A se stesso

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perí l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perí. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.

T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanitá del tutto.

Analisi: scritta dopo una delusione amorosa, questa lirica segna il punto di non ritorno del pessimismo leopardiano. Il poeta si rivolge al suo “stanco mio cor”, invitandolo a placarsi per sempre. L'”inganno estremo”, l’illusione dell’amore, è caduto. La vita è solo “amaro e noia” e il mondo è “fango”. La conclusione è un disprezzo totale per sé stesso, per la natura (non più madre benevola, ma “brutto poter” maligno) e per “l’infinita vanità del tutto”.

5. Scherzo

Quando fanciullo io venni
a pormi con le Muse in disciplina,
l’una di quelle mi pigliò per mano;
e poi tutto quel giorno
la mi condusse intorno
a veder l’officina.
Mostrommi a parte a parte
gli strumenti dell’arte,
e i servigi diversi
a che ciascun di loro
s’adopra nel lavoro
delle prose e de’ versi.
Io mirava, e chiedea:
Musa, la lima ov’è? Disse la Dea:
La lima è consumata; or facciam senza.
Ed io, ma di rifarla
non vi cal, soggiungea, quand’ella è stanca?
Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.

Analisi: in questa favoletta allegorica, Leopardi esprime la sua critica alla poesia romantica a lui contemporanea, che considerava troppo istintiva e poco curata formalmente. Il giovane poeta, visitando l'”officina” delle Muse, chiede dove sia la lima, strumento simbolo del “labor limae”, ovvero del lungo e paziente lavoro di revisione. La risposta ironica della Musa (“La lima è consumata; or facciam senza”) sottolinea come la poesia moderna, a suo avviso, abbia rinunciato al rigore formale in nome di una presunta spontaneità.

Immagine in evidenza: Wikipedia

Articolo aggiornato il: 27/08/2025

 

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