Lazarus di David Bowie e Enda Walsh al Mercadante

Lazarus

Lazarus arriva al Teatro Mercadante dal 3 al 14 maggio. Lo spettacolo di David Bowie e Enda Walsh, ispirato a The Man Who Fell to Earth, è rivisitato e diretto da Valter Malosti. Sulla scena giganteggia Manuel Agnelli, nel ruolo di Newton, il migrante interstellare costretto a rimanere sulla Terra, e condannato a non morire e a non invecchiare.

In Lazarus, Newton è se stesso e molti altri, il personaggio sul palco si frantuma, è doppio, triplo, lontano da questa Terra, sulle stelle, eppure prigioniero del suo corpo. Newton è Bowie e non, è, a un punto, anche la ragazza fragile e disorientata, interpretata da Casadilego. Michela Lucenti, Dario Battaglia, Attilio Caffarena, Maurizio Camilli, Noemi Grasso, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino, Camilla Nigro, Isacco Venturini sono tutti i suoi fantasmi, o il fantasma di se stesso, la proiezione di tutte le possibili declinazioni del suo IO frammentato.

Si può essere eroi per un giorno soltanto, ma Lazarus contiene moltitudini e vive infinite vite, allora ogni giorno potrebbe rivelarsi quello giusto

Si accende lo schermo: sin dal primo minuto di Lazarus, assistiamo a un proliferare di immagini, la testa di Newton sta per esplodere, sembra non rispondere più ai suoi stimoli, ma solo all’eccitazione provocata dalle proiezioni, che rappresentano scontri, lotte armate, l’aspetto terrificante che può assumere l’esterno, osservato attraverso gli occhi di un reietto, di un emarginato, che di quel mondo ormai non vuole saperne più niente, perché il suo spirito è già altrove.

Manuel Agnelli fa completamente suo Lazarus, rispetta la grandezza autoriale di David Bowie, ma si serve di questa figura eclettica, caleidoscopica, per indagare anche qualcosa di sé: ne viene fuori una personalissima interpretazione dei brani, eseguiti con il ritmo originario, ma spettro di un’altra anima ancora, che si aggiunge alle numerose dell’Alieno Bowie: quella autentica di Agnelli.

Su una poltrona di velluto rosso, siede rassegnato e sconfitto, Newton, con accanto la sua fedele bottiglia. In totale sfinimento, il protagonista sembra subire ciò che sotto gli occhi gli accade, assume un atteggiamento di sottomissione alla gioia, al dolore, all’orrore del mondo – i sentimenti umani gli appaiono ormai estranei -, ma dietro quel telo, protesi inconsapevole della mente, si nasconde un uomo identico a lui, in bilico tra la vita e la morte.

Lazarus «è già in Paradiso, ha cicatrici che non si vedono», ma ha ancora bisogno della persona di Newton per riattraversare i suoi drammi, indelebili, attaccati addosso come una seconda pelle. Caduto sulla Terra, per uno scherzo del destino, Newton si trova impreparato di fronte alla vita, ai suoi dolori, alla vecchiaia che irrompe, all’isolamento autoindotto, desiderato e poi sofferto.

Lo sventurato astronauta è costretto a sperimentare in prima persona cosa significa perdere l’amore, entra in contatto con la pubblicità e i media, e l’effetto psicotico che ne deriva, in più è terrorizzato dall’idea di diventare matto, forse perché un po’ crede già di esserlo.

Assistiamo a una messinscena sconclusionata, perturbante, oceanica, sulla scena predominano il blu e il rosso, che si alternano irruenti, impetuosi come onde.

Newton è Lazarus, un prescelto, un protetto, una figura mistica, che ha oramai perduto la sua spiritualità, e fatica a riconoscere come esseri reali gli spiriti che lo accerchiano: le donne dai capelli blu elettrico, danzanti, sembrano omeriche sirene, ammaliatrici, e lui sa che esistono solo nella sua testa, che è la sua mente a produrre quei personaggi in movimento.

Sul suo trono da King decadente, Newton si lascia ingannare dal mondo che si intrufola, senza permesso, nella sua dimora buia e tristemente barocca, nella quale ha scelto di recludersi. Arriva a fargli visita anche una ragazza, dallo sguardo innocente e dall’aria smarrita. Questo angelo dalla verde capigliatura, ha su di lui un effetto magnetico, riscopre per lei l’affetto ormai dimenticato, provato un tempo nei confronti della figlia. Entrambi sono vittime dello stesso supplizio: non possono liberarsi della vita.

Lazarus è una messinscena piena di dettagli, di momenti inaspettati, per ripercorrerla interamente, forse occorrerebbe riattraversare l’intera vita di David Bowie, tuffarsi insieme a lui da una navicella spaziale, in quell’universo sconfinato che la sua vita privata e artistica testimoniano, e che pare avere ancora effetti sul presente. Le lotte portate avanti dall’artista per l’amore libero, per la piena espressione di sé, del proprio orientamento sessuale – con annessi travestimenti, sfumature, trucchi, lati eccentrici, spiazzanti – sono di un’attualità indescrivibile.

Tra l’amore e la violenza c’è una linea sottile, che Newton ignora, per la sua entità ibrida, polimorfa. Ecco che appare sulla scena Valentine – un’altra proiezione di se stesso? – e, senza pietà, uccide, tenta di sabotare una coppietta di felici innamorati. Forse pensa che annientando ciò che ha intorno, può arrivare a distruggere anche il suo interno, e può darsi che non abbia altro obiettivo.

Newton si sente vicino anche a Valentine, l’assassino, tanto quanto riesce a pensarsi un tutt’uno con l’innocua ragazza, dal volto angelico, incastrata nella vita, esattamente come lui. Newton ama gli eccessi, le contraddizioni, i doppi, sa benissimo che ciò che vede non esiste, che sta facendo un monologo, che non ha nessun interlocutore, eppure quelle creature le accoglie.

Forse per lui c’è vita su Marte, ma in fondo si sente ancora Lazarus, inafferrabile anche nel mondo dei vivi.

Tra le canzoni,- tra le quali Lazarus / It’s No Game / This is Not America / The Man Who Sold the World / No Plan / Love is Lost / Changes / Absolute e altre ancora -, interpretate nella forma più sincera che il pubblico possa aspettarsi, e le coreografie, che trasformano ogni passo di danza nel racconto di un’esistenza insolita e memorabile, Lazarus è uno spettacolo che ha vita propria e si lascia vivere, sebbene ogni minuto sia pervaso dal terrore di morte.

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A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l’Università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna.

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