Mufasa – Il re leone di Barry Jenkins. Recensione del prequel live action

Mufasa – Il re leone di Barry Jenkins. Recensione del prequel live action

Mufasa – Il re leone di Barry Jenkins. Il prequel live action  della storia Disney che ha incantato e commosso grandi e piccini. Ecco la nostra recensione 

Mufasa – Il re leone è l’entusiasmante ritorno in live action de Il re leone. Si tratta però di un prequel, ossia del racconto di una storia, quella del re leone Mufasa, che anticipa gli eventi ben noti del remake (2019) e dell’omonimo film d’animazione del 1994, una tra le storie più commoventi nel panorama Disney.

Affidato alla regia di Barry Jenkins, Mufasa – Il re leone – distribuito nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 19 dicembre 2024 – torna a far sognare il pubblico, e non solo quello fanciullo. Tornano le magiche canzoni e la colonna sonora – ora affidate a Nicholas Britell, Pharrell Williams, Lin-Manuel Miranda e Mark Mancina -, intervallate dalle nostalgiche e ormai interiorizzate note di Hans Zimmer, che ci hanno emozionato fino all’indicibile, soprattutto nelle scene divenute ormai iconiche de Il re leone.

Mufasa – Il re leone di Barry Jenkins. Trama

Il prequel live action riprende la storia da dove si era interrotta, dal gran finale del “cerchio della vita”, con i frutti degli insegnamenti elargiti ed appresi, e le sue origini.

Ambientato tra la Great Rift Valley del Kenya e l’universo d’animazione digitale, Mufasa – Il re leone basa la sua trama su un racconto, narrato dal simpaticissimo e saggio mandrillo sciamano Rafiki (amico fraterno di Mufasa) alla giovane principessa Kiara, figlia di Simba e Nala. La piccola leoncina teme i temporali, non avendo ancora trovato fiducia in se stessa e nel coraggio che ha ereditato dai genitori e da suo nonno Mufasa, il re leone.

Così, insieme ai divertentissimi commenti di Timon e Pumbaa, Rafiki racconta a Kiara la storia del giovane Mufasa, disperso e strappato ai genitori da piccolo durante una piena seguita a un lungo periodo di siccità. Mufasa incontrerà sul suo percorso il giovane principe Taka e da lui sarà salvato, ignorando ancora il fulgore del suo incredibile destino.

I due divengono fratelli, pur non accomunati da un legame di sangue, e andranno incontro a pericolose ed entusiasmanti avventure, in compagnia della leonessa Sarabi, del chiacchierone tucano Zazu e di Rafiki, incontrati lungo il viaggio verso Milele.

Mufasa non è destinato alla regalità, contrariamente a quel che appare come fato di Taka, figlio infatti di un leone sovrano, ucciso da un branco di leoni bianchi, chiamati “gli emarginati”, capeggiati dal loro re Kiros, determinato a spadroneggiare ed uccidere senza pietà per diventare l’unico e solo re leone.

La lotta tra bene e male, e la speranza sempre viva in Mufasa di approdare alle paradisiache terre di Milele (raccontate da sua madre quando era ancora solo un cucciolo), l’Eden dove l’abbondanza, la bellezza, la pace e la luce sembrano destinate a regnare per sempre. Tutto questo accompagna il viaggio di Mufasa, attraverso terre, paludi e montagne innevate, attraverso la personale crescita, fiducia e temperamento, tipici di un leader, di colui realmente e naturalmente predisposto al ruolo di re.

Rafiki racconta dunque a Kiara la storia di coraggio, di amicizia, di amore, di lealtà, di tutte le qualità di cui suo nonno era imbevuto. Qualità possedute ora da suo padre Simba, e annidate in potenza anche dentro di lei, e che attendono solo di venir liberate e adoperate al servizio del bene comune, ciò che per Mufasa costituiva obiettivo fondamentale. Mufasa vive in Simba, e vive anche in Kiara.

Mufasa – Il re leone di Barry Jenkins. Recensione del prequel live action

Ne Il re leone, così come lo conosciamo dal film d’animazione del 1994 e dal suo remake del 2019, la figura di Mufasa è stata sì determinante, specie per gli sviluppi della storia (come trauma fondante) e della crescita di Simba, ma non totalmente. Abbiamo conosciuto Mufasa come genitore, re leone saggio, amorevole e anche severo all’occorrenza col suo piccolo Simba. Lo abbiamo visto avanzare regalmente sulla rupe dei re, orgoglioso del suo regno e della sua famiglia. Abbiamo sofferto con Simba alla sua dipartita – uno dei momenti più strazianti dell’intero universo delle storie Disney -, resa ancor più commovente dalle note indimenticabili di Hans Zimmer.

Mufasa ne Il re leone si era già guadagnato il suo posto nel “cerchio della vita”, raccontandone il senso al suo giovane Simba. Ma quale storia personale rende Mufasa il simbolo della regalità, il punto luminoso tra le stelle, destinato a proteggere da lassù i suoi cari anche dopo la sua morte? Cosa lo ha reso il re leone? Quali avventure? Quali drammi? Quali traumi ha sperimentato per essere poi predisposto a un incredibile coraggio, lealtà, amore, compassione e rispetto?

Tutto questo Barry Jenkins decide di raccontarcelo, offrendo a Mufasa finalmente la possibilità di essere egli stesso il protagonista di quel “cerchio della vita” che si perpetua, e offrendo al pubblico la possibilità di conoscere il valore immenso, che Mufasa reca con sé, oltre al ricordo drammatico, che tutti abbiamo interiorizzato a fatica, legato alla sua morte.

Riverenza e rispetto dunque per ciò che è venuto prima di quanto a noi sia ormai noto. E nel far questo, Jenkins mette su un lavoro egregio, raccontandoci una storia entusiasmante e commovente, nel rendere questa volta protagonista assoluto Mufasa, riuscendo ad onorare il passato, facendo un passo avanti rispetto a quelli che sono i cliché tradizionali legati a determinati valori e un certo tipo di simbolismo edificante.

Son trascorsi ormai trent’anni dall’originale Il re leone nella veste di film d’animazione Disney, sostanzialmente monarchico ed improntato all’idea di regalità come predestinazione. Ne Il re leone erano ben evidenti i valori di famiglia, lealtà, amicizia, determinazione e coraggio, ma tutto al servizio di un destino già tracciato, e che non era immaginabile potesse mutare. Veniva così espresso l’esatto ideale del conservatorismo, proprio tipico della monarchia, delle dinastie e di quel patriarcato, profondamente radicato nell’europeismo: le cose stanno così e non possono essere cambiate.

In Mufasa – Il re leone, sebbene venga raccontata la storia che precede gli eventi narrati trent’anni or sono, quella storia sa di modernità, sapore nuovo, mantenendo alto il valore di quegli ideali preziosi, ma ponendolo stavolta al servizio della libertà, di un’intraprendenza e di una certa predisposizione ad agire per il bene comune, pur non credendo affatto in una predestinazione. In poche parole, Jenkins rende Mufasa, più che re ideale, un presidente, o meglio, leader ideale, passando dalla passiva europeizzazione all’attiva americanizzazione. Sì, perché qui Jenkins ci mostra fondamentalmente cosa sia un vero leader e come diventi tale: compassione, lealtà, astuzia non egoistica, capacità decisionali, destrezza, amore, coraggio e volontà di tirar fuori il proprio meglio, non tanto e non solo da se stesso, bensì da tutti. Mufasa è privo di qualunque forma di egoismo, guardando solo a ciò che possa costituire il bene per gli amici e per la comunità. Pertanto il Mufasa creato da Jenkins è spinto nelle avventure e nella lotta al male solo dalla determinazione a non piegarvisi e a non lasciare che nemmeno gli altri lo facciano. Jenkins ci restituisce un Mufasa dinamico e intraprendente, per niente arroccato nelle proprie certezze e nella solida posizione imperturbabile di sovrano immortale.

Non conta pertanto lo status sociale, la provenienza familiare. Si può essere principe, ma non predisposto ad esserlo davvero. E si può essere orfano, randagio, eppure molto più predisposto a grandi cose, nel nome del duro lavoro e dello spirito di sacrificio atti a raggiungere bellissimi e importanti obiettivi, quelli di tutta una vita, come per Mufasa quello di raggiungere Milele, ricordando sempre che “L’occhio non dimentica mai ciò che il cuore ha visto, e che ciascuno, piccolo o grande, possiede il suo posto nel grande “cerchio della vita”.

 

Foto di: Wikipedia

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