Viviamo in un’Italia che corre. Un Paese in cui la modernità si è fatta liquida, instabile, frammentata, dove il tempo è sempre poco e la pressione sociale a “funzionare” è costante. In questa società accelerata, figlia di un consumismo nato nel XX secolo e oggi trasformato in culto del successo e della prestazione individuale, il ruolo delle donne – e in particolare delle madri – appare sempre più complesso, invisibile e, spesso, insostenibile.
Il mito della modernità ci ha venduto un’immagine idealizzata di libertà attraverso il consumo: la casalinga moderna, “liberata” grazie agli elettrodomestici e alle promesse pubblicitarie, è oggi la donna multitasking che lavora, consuma, gestisce la casa, cresce i figli e – possibilmente – lo fa con un sorriso.
Ma dietro questa facciata si nasconde una realtà brutale: quella di madri lasciate sole da uno Stato che le invoca solo nei bonus natalità o nei discorsi elettorali.
Avete mai provato ad essere una madre senza una rete familiare consolidata? Magari con un compagno spesso assente per lavoro o addirittura da sole, con un bambino piccolo tra i 3 e i 12 anni che si ammala più volte all’anno.
Cosa accade quando la malattia dura oltre i cinque giorni retribuiti concessi dalla legge? Nemmeno in caso di un ricovero prolungato una madre ha garantito il diritto di restare accanto a suo figlio senza rischiare il posto di lavoro o una penalizzazione.
Permessi da elemosinare, ferie consumate come pezzetti di tempo di sopravvivenza. E nel frattempo l’azienda guarda altrove. In questo contesto, la conciliazione tra lavoro e famiglia non è una possibilità, ma una lotta quotidiana, spesso persa in partenza.
Le politiche strutturali di sostegno sono scarse, mal distribuite, talvolta assenti. Si parla di bonus bebè, ma non di asili nido pubblici accessibili e sufficienti. Si incentivano le nascite a parole, ma si ignorano le famiglie quando gli scioperi del personale scolastico si moltiplicano, lasciando i genitori – ancor più le madri – a fare salti mortali per non perdere giornate lavorative.
E nel frattempo, il costo della vita aumenta, tra mutui, affitti e inflazione.
La società dei consumi – quella che ha reso il consumo stesso l’asse portante della qualità della vita – si è costruita sul lavoro invisibile e gratuito delle donne. Ha trasformato la cura in merce, la maternità in problema e il tempo in una risorsa privata da monetizzare.
Eppure, ancora oggi, chi si occupa quotidianamente di costruire il futuro – educando, curando, accudendo – è lasciata sola.
Il paradosso è evidente: si pretende di rilanciare la natalità in una società che rende impossibile essere madri. In un sistema lavorativo che non perdona assenze, che non garantisce congedi adeguati, che guarda con sospetto le donne che “osano” diventare madri.
Dove la flessibilità è un privilegio per pochi e la precarietà una condizione per molti. La conseguenza? Una delle più basse natalità d’Europa: in Italia si contano meno di 1,3 figli per donna.
Non perché le donne non vogliano più figli, ma perché non possono permetterseli. Non in queste condizioni. La maternità è diventata un lusso.
E mentre lo Stato fatica a proporre riforme strutturali – il sistema si affida ancora ai sacrifici individuali, soprattutto femminili. La maternità diventa così una missione privata, da compiere tra mille ostacoli, colpe e rinunce.
E in troppi casi, viene semplicemente rimandata o cancellata.
È il momento di chiederci: che futuro può avere una società che chiede alle donne di mettere al mondo figli, ma le punisce quando lo fanno?
Che considera i bambini una “risorsa demografica”, ma non investe nella loro crescita? Che costruisce i suoi modelli economici sull’iper-produzione e l’iper-consumo, ma si rifiuta di riconoscere il valore sociale – ed economico – della cura?
Se non si inverte la rotta con politiche coraggiose, strutturate, non saranno i bonus a salvare l’Italia dalla crisi demografica. E non sarà il mercato a garantire dignità e futuro a chi ogni giorno prova a crescere una nuova generazione tra l’indifferenza e l’ingiustizia.
Perché una madre non dovrebbe essere costretta a scegliere tra lavorare o prendersi cura del proprio figlio malato. E invece, oggi, questo è ancora il bivio che tante donne si trovano davanti.
In silenzio, ogni giorno. La società italiana contemporanea si trova a un bivio cruciale, dove l’accelerazione dei ritmi di vita, la cultura del consumo e la persistente disuguaglianza di genere si intrecciano con un fenomeno demografico preoccupante: la denatalità.
Questo processo non è un semplice calo numerico, ma un sintomo di una crisi strutturale che coinvolge il tessuto sociale, culturale ed economico del Paese. Analizzare questo fenomeno richiede un approccio multidisciplinare che consideri le dinamiche sociologiche, ecologiche e le implicazioni del patriarcato radicato anche nelle strutture lavorative.
Il tasso di natalità in Italia è sceso sotto la soglia delle 400.000 nascite nel 2022, un dato che non si registrava dall’Unità d’Italia.
Questo calo è il risultato di una combinazione di fattori economici, sociali e culturali: precarietà lavorativa, alto costo della vita, carenza di servizi per l’infanzia, incertezza economica.
Inoltre, la mancanza di politiche efficaci di supporto alla famiglia e la scarsità di congedi parentali equamente distribuiti tra madri e padri contribuiscono a questa tendenza.
Il lavoro di cura è ancora prevalentemente svolto dalle donne, che si trovano a scegliere tra carriera e famiglia. La mancanza di flessibilità, la scarsità di asili nido e scuole a tempo pieno e una cultura organizzativa retrograda ostacolano le donne nel gestire responsabilità familiari e lavorative.
Il patriarcato non è solo una questione di strutture sociali, ma è radicato anche nelle pratiche lavorative quotidiane. Le donne, anche in posizioni dirigenziali, spesso perpetuano modelli maschili di leadership, con orari rigidi e scarsa attenzione alla conciliazione vita-lavoro.
Questo “patriarcato lavorato” crea ambienti che penalizzano le madri, limitando opportunità di carriera e aumentando lo stress.
Nonostante le numerose dichiarazioni di intenti, le politiche italiane restano insufficienti. I congedi parentali sono tra i più brevi d’Europa, la distribuzione è squilibrata e i servizi per l’infanzia carenti. Manca un serio impegno per l’uguaglianza di genere nel lavoro.
Insisto: serve un cambio di paradigma. Per affrontare efficacemente la crisi della natalità e le disuguaglianze di genere, è necessario creare un ambiente lavorativo più inclusivo e flessibile, implementare politiche di supporto alla famiglia efficaci e promuovere una cultura che valorizzi il lavoro di cura come fondamentale per il benessere della società.
Yuleisy Cruz Lezcano
Foto di Cindy Parks da Pixabay