La testimone – Shahed di Nader Saeivar | Recensione

La testimone - Shahed di Nader Saeivar al cinema

Recensione del film La testimone – Shahed di Nader Saeivar

La testimone – Shahed di Nader Saeivar è uscito nelle sale cinematografiche italiane il 31 ottobre 2024. Il film, scritto da Jafar Panahi e Nader Saeivar, è espressione della coraggiosa lotta contro l’oppressione femminile in Iran. 

Il cast de La testimone – Shahed di Nader Saeivar è composto da: Maryam Bobani,  Nader Naderpour, Hana Kamkar, Abbas Imani, Ghazal Shojaei e Fahrid Eshaghi. Dopo aver vinto il Premio degli Spettatori nella sezione Orizzonti Extra all’81esima edizione del Festival di Venezia, La testimone – Shahed di Nader Saeivar, arriva nelle sale italiane dal 31 ottobre con No Mad Entertainment. Nader Saeivar è stato vincitore del Festival di Cannes per aver scritto la sceneggiatura di  Tre volti – Se rokhin in collaborazione con Jafar Panahi, regista Orso d’Oro per Taxi Teheran, e Leone d’Oro per Il cerchioDayereh. «Questa storia mostra che spesso, sotto un regime repressivo, coloro che si sforzano di mantenere dignità e umanità vengono cancellati e la verità deve essere distrutta», ha commentato Nader Saeivar.  

La testimone – Shahed di Nader Saeivar è una danza ininterrotta di corpi imprigionati in castelli fatiscenti

La protagonista de La testimone – Shahed (Maryam Bobani) compare nella scena iniziale in primo piano come testimone oculare di una lezione di ballo. Le indicazioni che pare ascoltare con volto fiero e compiaciuto, ma sempre severo, ricordano alle allieve che «ballare sul palco amplifica tutti i loro movimenti e sentimenti, e che se mostrano sicurezza nel ballare riescono a coinvolgere il pubblico, mentre se, al contrario, si muovono goffamente rovinano tutto. L’importante è continuare a ballare anche se si fa un errore. Perciò se si inizia bisogna continuare fino alla fine».

A raggiungere la nonna è la nipote adottiva in un abbraccio di complicità e affetto. La camera fissa sulla protagonista accoglie ora nell’inquadratura anche la giovane nipote, con particolare sensibilità e concentrazione sulle espressioni dei loro volti. Nonna e nipote rappresentano due punti di vista sulla medesima storia, due generazioni a confronto assimilabili per una caratteristica comune: entrambe non hanno paura.

Ne La testimone – Shahed la camera segue il percorso concentrico di una danza vorticosa, con il ritmo al passo della giovane ragazza, figlia della vittima innocente, sulla cui storia drammatica si regge in piedi la trama, ma a parlare è anche tanto altro…

Quello di Saeivar è un linguaggio cinematografico preciso, pulito, lento e profondo. È una cinescrittura che, per mezzo dei volti, delle luci e delle ombre, dei riflessi nei numerosi specchi e vetrine – gli altri veri e propri protagonisti del filmci parla delle anime delle protagoniste. Il cerchio di donne iniziale è composto da facce diverse eppure simili. I colori dei loro abiti sono il rosso e il bianco, amore e candore, senza nessuna tolleranza per le sfumature. Le ballerine danzano libere come uccelli che spiccano il volo, con le braccia aperte rivolte verso il cielo. Solo la giovane ragazza e la madre (insegnante e direttrice della scuola di ballo) sono vestite di nero. Sono loro a dirigere l’orchestra, ad accendere la cassa, ad aprire le danze. Sono nere come piccoli topini, ma i loro movimenti sono leggiadri come quelli di volatili.

All’inizio de La testimone – Shahed lo sfondo è bianco, senza nessuna macchia, trasparente. Nello spazio protetto della sala da ballo, donne di età diverse possono incontrarsi ed esprimersi, senza sentire, puntati su di loro, gli occhi di una società repressiva, del potere dominante che, per definizione, è patriarcale, e degli uomini delle loro famiglie, massima espressione di bigottismo culturale e di una morale religiosa e vergognosamente ipocrita.

La carrellata lenta sulle facce è uno sguardo attento e curioso di conoscere cosa si nasconde dentro i loro cuori, e dietro le mura delle loro case. Che cosa stanno tentando di camuffare il sorriso e il saluto di Zara direttamente rivolti agli spettatori in sala? Cosa ci sta per raccontare di sé? Di che evento saremo testimoni insieme agli occhi saggi e maturi di Maryam Bobani?

In La testimone – Shahed ogni spazio chiuso è una prigione, e ogni prigione è anche un manicomio. Chi diventa imprenditore vive una vera e propria schizofrenia, inizia ad avere una visione distorta del reale. Contamina e infetta tutto e tutti solo per mantenere alta la sua reputazione. Forse il regista sta provando a comunicarci che tutti gli affari, che implicano la violazione dei diritti umani e quelli delle donne in particolare, sono da considerarsi loschi. Chi non è imprenditore è condannato ad essere operaio, a vivere in un appartamento in affitto, a rinunciare a una casa di proprietà, a una promozione professionale o a qualsiasi possibile scalata sociale, come se anche la violazione dei diritti avesse natura intersezionale, al pari della lotta per conquistarseli.

La protagonista è una e trina. Non è madre biologica di nessuna donna, eppure le riprese dall’alto ci mostrano una meravigliosa triade: madre, figlia e anima santa. Tre gorgoni che si contendono il ruolo di Medusa. Chi sarà quella in grado di uccidere? La nonna o la nipote? Alcuni fotogrammi sono veri e propri quadri, effigi di figure sacre, vessilli dell’eterno femminino, che lo stesso film, a ragione, annienta con spietatezza. Altri sono semplici riflessi di disperazione che evocano un ardente desiderio di ribellione.

La testimone fa posare sulle sue ginocchia il volto di Zara e si prende cura delle sue ferite. Nel frattempo, dall’uscio della porta di una cameretta, scorge la giovane e imperturbabile figlia di Zara che, stesa sul letto, gioca ad essere libera. Con in mano il suo smartphone, inaccessibile e muta, sente su di sé gli occhi della nonna. La camera pare spiare nelle stanze altrui senza chiedere il permesso, entra senza bussare e posa lo sguardo con discrezione sull’interno, rimanendo sempre con un piede fuori. La testimone è una madre dimezzata, scissa tra i suoi due figli adottivi (moglie e marito) che non vanno d’accordo. È costretta a scegliere, suo malgrado, da che parte stare, eppure mantiene sempre una postura indomita e fiera. Rappresentante del sindacato per la tutela dei diritti delle insegnanti illegalmente carcerate, la protagonista incarna chiaramente una minaccia per Solat, il suo figlio maschio, adottato per il bene di Zara, abile e meschino uomo d’affari, null’altro che un manipolatore.

«Pensavo fossi madre di entrambi»: è questa una delle espressioni di vittimismo utilizzate da Solat per far leva sull’anziana donna. La testimone è un’osservatrice vigile e accorta, guarda attraverso le porte, tra le sbarre dei cancelli, tra gli spiragli e negli angoli, si affaccia sulle soglie dei portoni, intravede cosa sta accadendo attraverso gli specchietti retrovisori, gli spioncini…

Ossessionata dall’onnipresenza di topi, usa potenti veleni per liberarsene, li insegue con una mazza di scopa. Sa benissimo, però, che non potrà sbarazzarsene facilmente, perché i topi fanno squadra, si nascondono, e, soprattutto, nessun altro oltre lei è intenzionato a farli fuori. Solo la sua giovane allieva ha sviluppato dei sensi così acuti che le consentono di avere coscienza della topaia in cui vive. Forse perché ha avuto una buona maestra. Ne La testimone dietro ogni donna che entra in una stanza si chiude una porta sulla sua libertà individuale, ma anche sulla possibilità di chiedere aiuto. Così, le donne-streghe, come l’atavica tradizione è solita raccontarle, sono diventate delle maghe-linguiste benevole e tra loro solidali, abilissime a decifrare i codici non verbali.

La testimone – Shahed è  un film che mette in mostra senza timore alcuno tutte le contraddizioni e le ipocrisie di un paese in cui è considerato peccato ammazzare i topi, ma è consentito dalla legge uccidere la propria moglie adultera, se colta in flagrante nell’atto di tradire, e in cui una donna, che non indossa il velo in pubblico, viene accusata di indurre gli uomini in tentazione. Il finestrino di un auto diventa un obiettivo, una fessura che consente alla protagonista di accedere a uno scorcio di paesaggio, che le concede la possibilità di una visione altra nel mondo asettico e grigio in cui vive.

Così, ne La testimone, gli spettatori diventano a loro volta dei testimoni. Possono osservare due donne speculari e diverse, a distanza di due generazioni, dietro lo schermo-finestra che le tiene prigioniere dentro uno scuola di danza o nel soggiorno della propria casa. Grazie ai tempi volutamente dilatati delle inquadrature, si ha occasione di entrare in empatia con le protagoniste e ci si sente parte di un corpo di ballo, in cui ogni singolo movimento si può eseguire in sincrono o a canone. Solo chi sceglie di lottare, però, assorbe tutto il suo potere dal vento e può esibirsi in un assolo finale.

Quando il gatto non c’è i topi ballano e in qualche fiaba pure si trasformano in cavalli eleganti e possenti.  La vita reale, però, è diversa dalle fiabe e un finale migliore bisogna inventarselo. Un finale – come quello de La testimone – in cui leggeri passi di danza accompagnano un canto funebre e dalla putredine si librano uccelli. Si spalanchino i cancelli, sbattano pure tutte le porte; il vento spazza via i castelli di sabbia e le principesse sono libere di uscire, senza nessuna corona in testa ma con un punto esclamativo stampato sulla maglietta.

La testimone – Shahed è prodotto da Said Nur Akkus e Silvana Santamaria per ArtHood Films, insieme ad Arash T. Riahi e Sabine Grüber per Golden Girls Films, ed Emre Oskay e Timur Savci per Sky Films.

Fonte immagine: ufficio stampa

A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l’Università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna.

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