Empire of Light di Sam Mendes | Recensione

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Empire of Light, la recensione del film sentimentale di Sam Mendes con Olivia Colman, Michael Ward, Colin Firth, Tanya Moodie, Hannah Onslow, Crystal Clarke e Toby Jones

«Quel piccolo raggio di luce è una fuga»

Stephen in Empire of Light, il nuovo film di Sam Mendes.

Il cinema è evasione. Alienazione. Magia. Un bagliore di luce proiettato sul grande schermo. 24 fotogrammi al secondo. Una via di fuga da ogni problema. Il respiro di ossigeno puro inebriandosi della sensazione familiare del buio della sala.

«Dovresti entrare a guardare, qualche volta. Siediti in mezzo a un gruppo di persone che non ti conoscono, che non ti hanno mai incontrata e che neanche riescono a vederti», dice Stephen a Hilary guardandola dritta negli occhi. Il cinema salvifico. Il cinema come terapia. Il cinema come una medicina per guarire e per stare bene con sé stessi.

Empire of Light: il cinema di Sam Mendes sul fil rouge della replica

È proprio quella fuga che Sam Mendes (ri)cerca. Meglio ancora, proietta. Oltre il suo incredibile esordio con American Beauty (1999) e tutti i suoi riconoscimenti internazionali. Oltre le missioni dell’agente 007 di Skyfall (2012) e Spectre (2015). Oltre il raffinato piano-sequenza di 1917 (2019). Oltre i suoi artifizi cinematografici. Quel raggio di luce che è l’Empire of Light, il meraviglioso cinema anni ’80 con vista sul mare sulla costa settentrionale del Kent, in Inghilterra. Quel fascio di luce che proietta immagini in movimento nel buio cupo della sala.

Hilary Small (Olivia Colman) seduta al centro e la proiezione speciale di Being There (1979) solo per lei. E accantona tutti i suoi problemi di salute, le pillole, l’assistente sociale, la sua nevrosi tenuta sotto controllo da uno specialista, la depressione, la tristezza, la malinconia, le avances sessuali del capo Donald Ellis (Colin Firth). E non riesce a trattenersi: lacrime calde le bagnano il viso davanti a quella visione. Di una felicità mai provata. Lo sguardo in alto che osserva, l’espressione di chi assapora l’estetica del cinema per la prima volta. Situazione, quella del film di Sam Mendes, che ricorda molto il recente e divisorio Babylon (2023) di Damien Chazelle nel suo lodevole omaggio alla Settima Arte e la commozione di Manny Torres (Diego Calva) che piange come un bambino davanti il grande schermo.

Tuttavia, Empire of Light è il cinema di Sam Mendes che (ri)vive su uno sfondo diverso. Stephen (Michael Ward) è un ragazzo di colore che vuole studiare architettura ma inizialmente non viene selezionato all’Università. Inizia a lavorare come addetto strappabiglietti al cinema, e numerose forme di razzismo invadono la sua vita: preso di mira da alcuni abitanti del luogo e da un gruppo di tre membri del Fronte Nazionale che lo feriscono gravemente durante una protesta. Hilary entra ed esce dall’ospedale psichiatrico e non riesce a lasciare il suo giovane amante. Il segreto indicibile di Mr. Donald Ellis che viene a galla in mezzo a una rinomata Première. L’ambientazione della storia che viene servita da Sam Mendes come contorno alla portata principale: l’amore tra Stephen e Hilary, che celebra la brillante interpretazione di Olivia Colman che non lascia nulla al caso, tra un sorriso appena accennato e la furia depressiva che non riesce a placare dentro di lei. E l’empatia di Michael Ward che rivela tutta la sua forza espressiva.

È qui, però, il nodo narrativo che non viene sciolto: la nostalgia, il ricordo, la (ri)scoperta del cinema inzuppate di gloriosa replica tematica da parte di Sam Mendes che arrivano immediatamente dopo il già citato Babylon (2023) di Damien Chazelle e The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg.

Un omaggio anche questo, senza ombra di dubbio. E magari anche una vaga memoria dell’adolescenza impregnata di cinema artistico di Sam Mendes. Ma il contorno, questa volta, doveva essere servito insieme al pasto principale e diventare un piatto unico.

VOTO: 7

Martina Corvaia

Immagine: Disney

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