Con Il consolatore, Jostein Gaarder torna a riflettere sui temi dell’identità, della solitudine e del bisogno umano di senso, ma lo fa con un tono diverso rispetto ai suoi romanzi più celebri. Qui non c’è un intreccio filosofico didattico come ne Il mondo di Sofia, ma una narrazione più intima, dolcemente inquieta, capace di toccare corde profonde senza fare rumore. Il protagonista della storia è Jakop, un uomo di sessant’anni che vive ai margini del mondo, un ex linguista che ha scelto di restare in disparte mentre la vita scorre.
Il consolatore: funerali e bugie per sentirsi meno soli
Jakop ha una strana abitudine: si presenta ai funerali di perfetti sconosciuti, si mescola ai presenti e racconta aneddoti inventati sul defunto, fingendo un legame inesistente. I suoi discorsi, curiosamente, risultano spesso commoventi e ben accolti dai familiari. Ma il motivo che lo spinge a farlo non ha nulla di cinico: si tratta piuttosto di un bisogno disperato di contatto, di uno slancio verso l’altro che non trova forma più diretta. Jakop è un uomo solo, senza figli né amici veri, e con un rapporto ormai burocratico con la ex moglie, Reidun. L’unico amico è Pelle, figura ambigua e forse immaginaria, legata a un passato che pesa ancora troppo.
Il consolatore come romanzo sulla solitudine
Il romanzo si sviluppa come una lunga lettera rivolta ad Agnes, una donna incontrata in uno dei funerali, e diventa il luogo in cui Jakop prova a raccontarsi, a ricucire brandelli di senso in una vita fatta di distanza e omissioni. La narrazione, quindi, non è lineare, ma segue il filo della memoria personale, dell’introspezione, del bisogno di essere visti. Gaarder disegna un protagonista fragile, ironico, a tratti goffo, ma mai ridicolo. Jakop non cerca compassione, ma comprensione; non risposte, ma uno spazio in cui le domande possano esistere senza essere respinte.
Il significato del titolo: chi consola chi?
Il titolo del romanzo si presta a un duplice significato: chi è davvero il consolatore? Jakop, che consola le famiglie dei defunti con le sue bugie gentili, o chi lo ascolta, permettendogli di sentirsi meno invisibile? In questo equilibrio sottile tra finzione e autenticità, Il consolatore invita a riflettere sul valore delle parole, sull’uso che ne facciamo per costruire legami o per proteggerci dal vuoto. Gaarder non giudica il suo protagonista: lo osserva, lo lascia parlare, gli concede una voce anche quando questa voce si nasconde dietro storie non vere.
Lo stile di Gaarder: sobrietà, tenerezza e malinconia
Lo stile di Gaarder in questo romanzo è misurato, essenziale, pieno di delicatezza. Non c’è fretta di arrivare a una morale, né bisogno di grandi svolte. La forza della narrazione sta proprio nella lentezza, nella capacità di far emergere il dolore senza gridarlo, di raccontare la fragilità senza pietismo. I dialoghi, le descrizioni e le riflessioni interiori creano una prosa silenziosa, quasi sussurrata, che accompagna il lettore in uno spazio intimo.
Perché leggere Il consolatore?
Il consolatore è un libro che parla a chi ha conosciuto la solitudine ma anche a chi si interroga sul valore della presenza, sulla necessità di creare connessioni vere in un mondo sempre più distratto. È un romanzo che non dà risposte facili ma offre la possibilità di ascoltare una voce ai margini e di riflettere sul bisogno di essere riconosciuti. Con la sua tenerezza malinconica, Gaarder ci ricorda che spesso sono le storie – anche quelle inventate – a tenerci vivi.
Fonte immagine: Longanesi