Nereo: le sue Danze Cosmiche

Il pop in una dimensione nobile della sua letteratura. Ci accodiamo alla lunga critica d’accoglienza positiva che questo esordio sta maturando in queste prime settimane di pubblicazione. Parliamo del cantante e cantautore pugliese Nereo che pubblica autonomamente un disco come “Danze Cosmiche” che nell’impatto estetico dei pregiudizi superficiali non ha un abito “monacale” come si deve… sembra di imbattersi in uno space pop digitale di nuova generazione. E invece dentro esiste una dimensione pregiata del pop, di un canto preciso, professionale, umido di riverberi e contorni d’autore… esiste anche una bella melodia che accarezza la nostra lingua e la coccola. “Danze cosmiche” è un disco delicatissimo come la leggerezza delle piccole cose che Nereo porta in scena nel video de “Fine di un’estate”. Ennesima prova di come le apparenze estetiche, che poi sono tutte soggettive e opinabili, siano foriere di pregiudizi e stupide sensazioni.

 

Benvenuto al mondo discografico Nereo. Certamente è il primo lavoro ma non sei “vergine” a certe dinamiche. Qualcuno dice che tanto è cambiato con la pandemia. Dicci la tua: come hai scoperto questo pianeta?

Ho sempre cantato e scritto canzoni, ma per una serie di circostanze sfavorevoli ho abbandonato il sentiero della musica per darmi alla mia professione attuale (e non lo dico con rammarico, amo il mio lavoro). È certo che la pandemia ha sbriciato qualcosa che cerchiamo, non senza sforzi, di ricostruire, di ricomporre ancora oggi. La mia rinascita è scaturita proprio dalle meccaniche del cosmo che si sono rimesse in moto nel silenzio della città addormentata dal virus.

 

Pensi che “Danze cosmiche” stia ricevendo le attenzioni che merita? Domanda un po’ spigolosa ma vogliamo darvi la possibilità di dire la vostra sul tema…

Il mio ufficio stampa si è prodigato per fare in modo che questo progetto indipendente (super indipendente!) avesse le sue specifiche casse di risonanza. Sono partito senza alcuna aspettativa, consapevole d’essere una voce fuori dal coro, in tutti i sensi possibili, senza pretendere nulla al di là della bontà dei miei ascoltatori e di quei giornalisti interessati e partecipi. La risposta è stata molto positiva, a meno di qualche (sparuta) critica naturale, non si può piacere a tutti. Ho lasciato la mia musica lì, sospesa tra antico e odierno, in una fessura da cui passi luce per ricordarmi chi sono stato, quanto ho amato cantare e il desiderio al quale incatenarmi, a prescindere da tutto.

Penso che la voce sia davvero il punto più alto del disco e dei suoi attori. Ispirazioni? Il tuo canto a chi e cosa deve la forma e l’estetica?

Grazie per questa sottolineatura. Ho ascoltato e ascolto molta musica “nera”, per cui i miei riferimenti sono da ricercare in quel mondo. È triste constatare come, oggi, l’intonazione, la tecnica, il virtuosismo siano relegati a un fare musica superato o da superare, quasi che il mestiere del cantante non sia altro che immagine e fama del produttore da pagare.

Se ti chiedessi la canzone del disco che per te possa essere chiamata a bandiera di tutto?

“Senza voce”. La canzone del ritorno. Un pezzo che ho cesellato attraverso il tempo, modificando, aggiungendo, togliendo, senza mai esserne soddisfatto pienamente.

“Gabbiano” sembra uscire fuori dalla narrazione sonora con uno stile che davvero ci piace. Torna l’acustico… in “La stanza” sembra che il volume sia diverso e proprio la registrazione cambi. Che ci dici in merito?

“Gabbiano” è un colpo al cuore. Parla di una persona a me cara, e di tutte quelle che vediamo morire con i nostri occhi.

“La stanza” è un pezzo lontano, sì, che non ho voluto riarrangiare, proprio perché quell’interpretazione così tagliante, sanguigna, e al tempo stesso immateriale, non sarebbe mai più stata possibile. “La stanza” non poteva più danzare, ma, soprattutto, io non sarei più stato in grado di (ri)cantarla. Certe emozioni si provano una volta sola. È rimasta intrappolata nelle sue quattro mura di carta velina. Come un hapax, un “mai più” scientemente perseguito.

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