Stefano Sollima, già acclamato per il successo di Romanzo criminale e Gomorra, torna con una nuova attesissima opera, soprattutto per gli amanti del true crime: Il Mostro, miniserie composta da quattro episodi e disponibile su Netflix dal 22 ottobre 2025. Contro le aspettative del pubblico, niente Pacciani e niente “compagni di merende”. Sollima fa un passo all’indietro, verso la cosiddetta “pista sarda”, innescata da un duplice omicidio avvenuto con la stessa arma che diventerà la firma del Mostro di Firenze.
La pista sarda
Tutto ha inizio nel 1968, a Lastra a Signa, dove Barbara Locci e il suo amante Antonio Lo Bianco vengono trovati senza vita nella loro auto, crivellati da una pistola calibro 22 siglata “H”. A dare l’allarme è il figlio della donna – di soli cinque anni – che dormiva sul sedile posteriore al momento dell’omicidio. Svegliato dai proiettili, raggiunge scalzo un casolare vicino e chiede aiuto. A confessare il delitto è Stefano Mele, marito di Barbara.
Quattordici anni dopo, nel 1982, un’altra coppia – Paolo Mainardi e Antonella Minervini – viene assassinata: stessa arma, stessi bossoli, stessa ferocia. L’incubo si riaccende, e le indagini – guidate dal sostituto procuratore Silvia Della Monica e dal maresciallo Vittorio Perugini – delineano un inquietante collegamento con il delitto del 1968.
Così, anni dopo aver scontato la sua pena, Stefano Mele viene ricontattato dagli inquirenti, qualcosa non torna. Ma le sue parole cambiano a ogni interrogatorio: prima ammette di aver ucciso per gelosia, poi accusa i fratelli Vinci – prima Francesco e poi Salvatore – compaesani sardi della coppia, coinvolti in una rete di tradimenti e rancori familiari. L’inchiesta si allarga fino a coinvolgere nuovamente tutti i protagonisti della “vicenda sarda”, dando inizio a una catena di interrogatori, sospetti e reticenze che riaprono vecchie ferite mai rimarginate.
Oltre il delitto: un ritratto dell’Italia rurale
Il Mostro sembra essere una serie incentrata non tanto sulla violenza omicida, quanto sullo spaccato sociale che ha partorito una delle vicende più oscure del nostro Paese. Fin dai primi minuti, è chiaro che l’intenzione non sia quella di svelare l’identità dell’assassino, ma di ricostruire il contesto sociale e culturale nel quale si muoveva. La narrazione, infatti, non assume i toni di un crime, ma di un racconto corale sull’Italia degli anni Sessanta e Ottanta.
La serie si muove tra la Sardegna rurale e la Toscana provinciale, due mondi lontani ma simili nella loro chiusura, dove il pater familias stabilisce le sorti di tutti e la donna vive in una condizione di sottomissione. Un ambiente arcaico, in cui l’istinto prevale sulla ragione e il silenzio è legge. In questo scenario, la violenza non è un caso isolato, ma il prodotto collettivo di una società che genera i propri mostri.
La struttura – quattro episodi, ciascuno incentrato su un personaggio diverso – alterna le indagini degli anni Ottanta ai fatti degli anni Sessanta. Questa frammentazione temporale è ambivalente: da un lato dà ritmo alla narrazione e mostra ciò che muove le azioni dei personaggi, restituendo loro spessore; dall’altro, risulta caotica, soprattutto per chi non conosce la vicenda reale e fatica a mettere insieme i pezzi.
Inoltre, sembra esserci qualche crepa nella componente investigativa: gli interrogatori e la polizia restano quasi sempre sullo sfondo, relegati a un ruolo marginale in una vicenda che privilegia il dramma umano rispetto al mistero del crime, che però resta pur sempre alle fondamenta della storia. Un’altra pecca risiede nell’eccessiva spettacolarizzazione della violenza, talvolta non necessaria.
C’è di buono che la regia eccelle per la cura visiva: una fotografia cupa, quasi sporca, che cattura perfettamente l’atmosfera grigia della provincia italiana. Le scenografie, i costumi e i dettagli d’epoca costruiscono un realismo immersivo, mentre il ritmo – nonostante la frammentazione – resta sostenuto. Il cast è un punto di forza: composto in gran parte da volti meno conosciuti, rappresenta una boccata d’aria fresca per il panorama televisivo italiano. Marco Bullitta dà corpo al tormento di Stefano Mele, rendendo visibile la lotta interiore di un uomo dilaniato dai legami familiari. Giacomo Fadda riesce a rendere tanto attraente quanto inquietante il suo Francesco Vinci. Francesca Olia lascia trasparire il dolore e la forza di un personaggio che non abbassa mai la testa. Meno convincente, invece, Valentino Mannias, che, sebbene riesca nel trasformare Salvatore Vinci in un personaggio ambiguo e disturbante, a tratti scivola in una recitazione caricaturale, soprattutto sul piano espressivo.
Il Mostro: meglio come preludio
Da un punto di vista tecnico, Il Mostro funziona. È sul versante narrativo che, nonostante l’innovazione di un crime romanzato e fortemente intrattenitivo, perde un po’ d’efficacia. Non è un prodotto da buttare, ma non convince mai del tutto.
Nel finale, l’introduzione della figura di Pacciani sembra voler lanciare una possibile seconda stagione. Questo potrebbe cambiare le carte in tavola e rendere la prima pista una premessa intelligente e originale; qualora così non fosse, resterebbe la sensazione di un lavoro incompleto, che si ferma proprio quando sta per cominciare a dire davvero qualcosa.
Fonte dell’immagine: Netflix Media Center

