Norte, the End of History (2013), diretto dal filippino Lav Diaz, è un film monumentale, di oltre quattro ore, che trasporta il dramma dostoevskiano di Delitto e castigo nelle Filippine contemporanee. Più che una trasposizione fedele, si tratta di una reinvenzione che intreccia la vicenda di un assassino con quella di un innocente condannato ingiustamente, facendo emergere un quadro politico e morale che va oltre il singolo delitto. Con lo stile contemplativo che caratterizza Diaz, fatto di lunghissimi piani fissi e narrazione rarefatta, il film diventa non solo una meditazione sulla colpa e sulla giustizia, ma anche sulla crisi storica del Paese.
Norte, the End of History: la trama
Fabian, ex studente di legge brillante ma inquieto, è disilluso dal sistema politico e sociale delle Filippine. Convinto di avere una missione superiore, così come Raskol’nikov in Delitto e castigo, uccide un’usuraia e suo figlio, nel tentativo di “liberare” la società da una figura corrotta. Ma il suo crimine resta impunito: a essere arrestato e condannato è invece Joaquin, un uomo povero e innocente. Mentre Fabian sprofonda nella paranoia e nella disintegrazione morale, Joaquin subisce la brutalità della prigione e la sua famiglia lotta per sopravvivere. Il film si muove così tra due destini opposti e complementari, mostrando come la colpa non sia solo individuale, ma collettiva, inscritta nel tessuto stesso della società filippina. Di seguito il trailer ufficiale del film:
Norte, the End of History, recensione: regia contemplativa
Lav Diaz è maestro di un cinema radicale e contemplativo, un autore che ha fatto della durata estrema e della lentezza una vera e propria poetica. I lunghi piani fissi immergono lo spettatore in una dimensione diversa, dove il tempo non è più quello del cinema commerciale ma quello della vita reale, con tutto il peso delle sue attese, sospensioni e silenzi. La dilatazione temporale diventa così un atto politico e poetico insieme: chi guarda è costretto a fermarsi, a osservare senza distrazioni. Il peso degli eventi è reso senza alcuna mediazione.
Villaggi, strade polverose, carceri e case povere raccontano un mondo in cui la speranza sembra fragile e sempre a rischio. Ogni ambiente sembra impregnato di una stanchezza antica, un senso di immobilità che riflette la condizione dei protagonisti. L’assenza quasi totale di colonna sonora rafforza il senso di crudezza e realismo: il silenzio domina le scene, interrotto solo da rumori quotidiani o dialoghi scarni. I colori del film sono desaturati, spesso virati al marrone, al verde cupo e al grigio, con pochissimi accenti vivaci. Questo non per rendere il film realistico “in senso naturalistico”, ma per sottolineare il senso di decadenza, immobilità e durezza della vita filippina contemporanea. Il colore diventa un linguaggio morale.
Il confronto con Delitto e castigo e il significato del titolo
Il parallelismo con Delitto e castigo di Dostoevskij è evidente e dichiarato: Fabian è un Raskol’nikov trasportato nelle Filippine. Come Raskol’nikov, anche lui è un ex studente che crede di essere diverso dagli altri, capace di oltrepassare la morale comune, di compiere un gesto estremo in nome di un’idea superiore. L’omicidio dell’usuraia e del figlio è il tentativo di affermare la propria visione sul mondo.
Dostoevskij si concentra soprattutto sul tormento interiore di Raskol’nikov (la coscienza che divora, la colpa che logora), mentre Lav Diaz allarga lo sguardo. In Norte, the End of History non c’è quindi soltanto il peso morale dell’assassino, ma anche quello che ricade su chi non ha colpe: Joaquin, povero e innocente, diventa il vero condannato. Lui e la sua famiglia sono travolti da un sistema che non punisce i responsabili, ma sacrifica i più deboli. È qui che il film si allontana da Dostoevskij e diventa politico. La colpa diventa di più che un semplice fatto individuale: è un intero meccanismo sociale. Nelle Filippine di Diaz il crimine lo paga chi non ha strumenti per difendersi, e non chi li commette.

Il titolo The End of History suona allora come una provocazione amara. Nelle teorie occidentali degli anni ’90, infatti, “fine della storia” significava l’avvento di una democrazia compiuta, di un futuro senza più grandi conflitti. Questa promessa, però, non si realizza: la storia non è finita, anzi continua a ripetersi come tragedia. Corruzione, violenza e disuguaglianza sociale segnano ancora il destino di un Paese che avrebbe dovuto essere libero e moderno. È un eterno ritorno dell’ingiustizia, con i ricchi che vengono lasciati al riparo e i poveri esposti alla colpa e al dolore.
Il film è attraversato da una tensione universale: l’assassino che rimane impunito, l’innocente che paga, la famiglia che resiste nella miseria. Sono figure che incarnano la crudeltà di un sistema che perpetua le ingiustizie. L’ingiustizia di fondo che governa la vita quotidiana è il vero filo conduttore della pellicola: attraverso essa Diaz ci ricorda che la storia non procede verso un futuro migliore, ma resta intrappolata in cicli di dolore e colpa che non si spezzano.
Perché e dove vederlo oggi?
Norte, the End of History è un film impegnativo, per durata e stile, ma ha una forza etica e politica rara. Guardarlo significa confrontarsi con le grandi domande della letteratura dostoevskiana — la colpa, il castigo, la redenzione — tutte trasposte in un contesto che denuncia le ferite ancora aperte delle Filippine. In un tempo in cui il cinema tende a semplificare e a ridurre, Diaz restituisce la complessità, costringendo lo spettatore a rallentare e a pensare. È un’esperienza difficile ma necessaria, anche perché si tratta di un’opera che interroga non solo la società filippina, ma la condizione umana universale: è un film che parla a tutti. Il film non è di facile reperibilità, ma è disponibile in DVD e talvolta in streaming su piattaforme specializzate nel cinema d’autore, come MUBI, o in rassegne dedicate al cinema asiatico.
Fonte immagine in evidenza: Amazon Prime Video