‘O Rione di Gianluigi Signoriello | Intervista | NiC

'O Rione di Gianluigi Signoriello

In vista della proiezione del cortometraggio ‘O Rione, nell’ambito della rassegna NiC – Fiera del cinema in programmazione per il 18 dicembre a Napoli, presso il Cinema Vittoria, Eroica Fenice, come media partner della rassegna, ha rivolto qualche domanda al regista Gianluigi Signoriello.

Ciao, Gianluigi. Innanzitutto: chi sei, da dove vieni e dove vai.

Io sono un ragazzo che è cresciuto a pane cinema e musica, passione che mi ha trasmesso mio zio Ciro che abitava con me e che adesso non c’è più, se la vita non mi avesse mandato lui, probabilmente mi sarei perso un bel po’ di cose belle. Sono un ragazzo che viene dal Rione in cui è ambientato il corto, il rione in cui abito, Rione San Tommaso D’Aquino, un Rione storico del quartiere di Miano. Dove vado? Non voglio andare da nessuna parte, io voglio restare, se parliamo di andare via, proprio non riesco a staccarmi dal mio quartiere, c’è un amore e odio terribile; poi se la mettiamo su dove vorrei andare in ambito professionale, beh allora ti dico che vorrei fare, più che andare.

Come nasce il tuo cortometraggio, e perché nasce proprio in questa forma? 

Nasce da un’idea rimuginata per molti anni, anni fa: io e mio fratello affacciati dal balcone vedevamo i criminali del Rione, che banalmente conosciamo, inutile dirti che siamo estranei, ti direi una bugia, io le dinamiche le conosco molto bene, quindi osservando questi gruppi malavitosi ci siamo sempre chiesti, cosa succede se un ragazzo, estraneo al contesto malavitoso, in preda a nevrosi per il posto in cui vive uccide un criminale? Ecco questo è stato l’incipit di partenza per l’idea, poi l’incontro con Domenico Moccia e Alessio Galati ha fatto si che la storia avesse una linea narrativa abbastanza precisa e divertente da scrivere. Questa cosa me la sono portata dentro per anni, perché non avevo il coraggio di affrontare una regia, anche se le scene le immaginavo vive e vivide, mi giudicavo per il fatto che forse non sarei stato in grado di poterlo fare, ma poi è successo. Inizialmente volevo girarlo con lo smartphone, perché non possedevo gli strumenti e anche per rendere il lavoro più leggero, poi con il coinvolgere le persone nel progetto è diventato sempre più grande questo progetto. Ad Ivano Leone che è il Direttore della fotografia raccontai la mia storia fuori ad un bar del centro, ci incontrammo con lui e Alessio, dopo avergli raccontato la storia mi disse ‘Dai facciamolo” io ero spaventato, era strano che qualcuno avesse accettato una roba così al primo racconto, non ci credevo che avesse accettato di supportarmi in questa follia. Perché l’ho girato così? Perché l’ho immaginato così, angosciante, sempre di notte, qualcosa che è legato ai miei incubi, perché inutile dirti che c’è del personale in questa roba, l’ho immaginato ispirandomi anche a quelli che sono i miei riferimenti, qualcuno dice Gomorra, ma in realtà è più Taxi Driver, un Travis in chiave Napoletana. Dove il problema non è il Vietnam ma il Rione che ci modella e ci plasma, e questo è accaduto a me, stavo per essere plasmato dal contesto ma poi la lucidità e la personalità mi hanno permesso di rendermi conto della situazione, l’ho girato come io ho vissuto certe cose e come i miei occhi vedono quelle cose.

Com’è noto, il rione è un posto da cui si può andare via ma che mai andrà via da chi l’ha vissuto: Ivan ce l’ha dentro e dà forma al suo malessere, alla sua nevrosi. Nel corto, questo porta anche a distorcere la realtà, ad immaginarla? 

Chi soffre di nevrosi è inevitabile che vede cose in modo alterato, che lo porta ad immaginare scenari terribili, a volte se le nevrosi non vengono fermate o curate in tempo possono mutare in qualcosa di pericoloso e spaventoso. Sicuramente Ivan certe cose le vede in maniera distorta, ma è anche vero che la distorsione di ciò che vede è frutto del contesto da cui proviene. Nel Rione si vedono cose che banalmente sono distorte. Tutto ciò che vede Ivan si mischia all’immaginazione e quello che la sua nevrosi lo porta a distorcere.

Mi viene in mente Raffaele La Capria quando scrive di Napoli “una città che ti ferisce a morte o ti addormenta, o tutte e due le cose assieme”, e questo mi sembra il caso di Ivan, o di Totore ‘o Bisonte. Se ammettiamo per un momento che il tuo corto non parli di violenza, di cosa parla? Di pazzia?

Parla di voler risolvere un problema, di un desiderio, ma che banalmente con il metodo adottato dal protagonista ciò non avviene. Quando sto giù al Rione le persone che odiano determinati camorristi, spesso dicevano e dicono cose del tipo “ma ancora devono morire? Una brutta fine devono fare, devono soffrire, come fanno soffrire gli altri” queste parole mi hanno sempre colpito, il desiderare la morte di un individuo a discapito di un altro, è la soluzione? Non lo so, e non credo, ma sicuramente è un desiderio inconscio, lo dici a te stesso e basta, ma poi devi fare i conti con la realtà, con ‘O Rione vediamo che un gesto come quello porterebbe solo a conseguenze terribili. Quindi ti dico, un Desiderio inconscio della comunità.

Domanda d’obbligo: quanto c’è di autobiografico nel tuo ritratto del rione? 

C’è molto di autobiografico: Totore ‘o Bisonte è ispirato ad un personaggio che nel Rione chiamavano Pasquale ‘o Lupone, questo perché scendeva sempre di notte, come un lupo mannaro, e i ragazzi del Rione gli davano dei soldi per fargli tirare fuori i genitali e divertirsi, ed io avevo la stessa identica reazione di Ivan nel corto, sempre, scatenava in me una tenerezza terribile, poi una volta stavo per scendere e appena arrivato nel posto in cui abbiamo girato la scena di Totore mi dissero che due minuti prima avevano fatto pisciare sotto a Pasquale ‘o Lupone, un giovane camorrista gli aveva puntato la pistola in faccia, Pasquale era veramente una bravissima persona con i suoi problemi, e ricordo benissimo che i ragazzi che avevano visto questa scena erano imbestialiti, in loro una rabbia terribile, quasi avrebbero voluto ammazzare quel camorrista, ecco, in questo caso il “desiderio”. Mi dissero che Pasquale si ammutolì e se la fece sotto, provai ad immaginare la scena, e contemporaneamente nella mia testa immaginavo il camorrista che aveva fatto questa cosa, di fargli fare la stessa fine di Stefano, solo per fargli capire cosa si prova. Un’altra scena che è praticamente identica a come l’avevo vissuta è il pestaggio del ragazzo, quel pestaggio è avvenuto esattamente nel posto in cui abbiamo girato la scena, esattamente lì, ricordo che volevo filmare di nascosto quella roba perché sapevo che un giorno mi sarebbe servito, ma un amico mi fermò subito e quindi vive solo nei miei ricordi. Il ritrovo della pistola è un altro argomento che spesso con gli amici del rione affrontiamo: da piccoli abbiamo trovato decine di pistole vere, alcuni amici le avevano rivendute o rimesse a posto, io personalmente ne trovai una con mio cugino, che non ricordo a chi la diede, ho un ricordo sbiadito, ricordo però che era molto vicino all’albero dove abbiamo girato la scena dove la nasconde, il fatto che lui la perde è un po’ una proiezione mia, come se quelli che l’avessero fatta sparire eravamo noi stessi che ritrovavamo le pistole, anche perché quando i camorristi perdevano le pistole erano incazzati veramente, e se ci avessero sgamato non dico che ci avrebbero sparato ma, ci avrebbero menato pesantemente. Poi la morte, qui sfondi una porta aperta, posso dire, non so se dirlo con vanto o vergogna, che io e Giuseppe Cirillo siamo gli unici Attori o artisti, perché nel mio caso voglio approfondire la regia, di aver visto molte persone morire sparati, ma tanti veramente. Il rantolo è frutto di storie e vita personale: Giuseppe vide morire davanti ai suoi occhi un tizio, più di uno per l’esattezza, ricordo ancora il momento in cui gli spararono, sentimmo 4 o 5 colpi, io alzai la mano per dire che erano colpi di pistola, un mio amico mi disse che stavo allucinato e che erano semplicemente petardi, ma dal suono mi accorsi che non era così, dopo 3 secondi vedo uscire uno scooter con a bordo i due killer completamente incappucciati, corremmo dentro al rione e vedemmo il tizio che poi era il fratello della fidanzata di quel periodo di mio cugino che era stato ucciso, non ebbi il coraggio di andare vicino, lo fece Peppe e mi raccontò com’era la sua faccia, l’espressione impaurita, non si aspettava di morire mi disse Peppe, una morte spaventata. Io corsi a casa di mio cugino e c’era la sorella, fu veramente difficile dire che il fratello era stato ucciso, ma comunque lo dissi a lui e poi andai via, ci pensò lui a dirlo a lei. Per 3 giorni ho sognato quell’omicidio in diversi modi possibili. Altri omicidi visti in altri momenti della vita, una volta ho visto morire zio e nipote, una scaricata di pallottole, quando andai sul posto è stato terribile, erano caldi, freschi uccisi, e il rantolo è sempre stato presente. La frase sul tumore che Ivan pronuncia a Stefano è una proiezione del cancro che si è mangiata mia madre, anche lei emetteva un rantolo stranissimo prima di spegnersi, e questo a 16 anni ti resta. Poi anche molto materiale gore, per capire in che modo ricreare lo sparo, volevo qualcosa che facesse percepire tutto il peso del gesto estremo del protagonista, sennò “per quanto mi riguarda” tutto il corto non avrebbe avuto senso. E poi banalmente la nevrosi, io stesso ho sofferto di Ansia e attacchi di panico, penso sempre che dopo tutto quello che ho visto, qualche attacco di panico è più che giustificato, no? Weee però io non so Ivan del corto, io so simpatico v’o giur, tropp checazz, poi ci conosceremo da vicino con tutti voi.

“Benvenuti a Bagdad” compare su un muro a un certo punto: in questi venti minuti di corto, trovano spazio tutti i rioni del mondo? Credi ci sia una certa universalità nel degrado e nella malavita di alcuni quartieri per cui la storia di Ivan è storia comune ad altri? 

Sicuramente c’è universalità per quanto riguarda i Rioni, sono quasi tutti così, almeno io che ho lavorato come Peer educator, e lavori con le associazioni territoriali e progetti di educativa e teatro, molti dei rioni hanno tantissime cose in comune, se non uguali in tutto e per tutto, non so se ci sono altri Ivan, ma sicuramente ci sono altri Gianluigi. Lotto G, Parco Verde, Rione Janfolla, Rione San Gaetano, Rione Don guanella, Rione Gescal, Masseria Cardone. Insomma il degrado si somiglia, chiunque dica il contrario, o è un ipocrita o non saprei. Per anni ho visto cose terribili, in questo momento c’è un po di calma, speriamo continui.

O’ Rione vuole solo mostrare una condizione raccontando una storia, o vuole anche offrire una tua visione fatalista in cui la violenza sembra non trovare mai fine anche quando è giustizia? 

Entrambe le cose.

Hai altri progetti legati a questo mondo-rione?

In questo momento ho varie idee che mi frullano in testa, io e Giuseppe, che abitiamo uno di fronte all’altro, stavamo pensando di raccontare la storia di un tizio che ha dei problemi mentali, legati all’uso di crack, questo tizio da cui vorremmo attingere è lo stesso che stava dando fuoco al set, o meglio al campo base – giuro che vi sto dicendo la verità, se avessi avuto un ragazzo che girava il backstage, sarebbe stato più interessante il backstage del corto stesso, giuro. E poi il mio desiderio è fare un lungo, una storia sui rider, che comunque riguarda un momento della mia vita; facendo il rider ho visto e conosciuto storie e persone assurde, ho già girato un monologo che ho pubblicato su Instagram, in concomitanza alla festa dei lavoratori, vi consiglio di guardarlo. Io voglio raccontare la vita, non mi interessa fare un cinema che ha a che fare con storie semplici, cerco di prendere dalla mia vita e farla diventare storia, spero di continuare, perché vorrei raccontare ancora tante cose.

Fonte immagine: Locandina del cortometraggio presentata al Foggia Film Festival.

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