Ci sono notti infinite, silenziose, in cui le lampadine tremano e i respiri si fanno lievi. Sono le notti di Wild Nights, film presentato nella sezione Progressive Cinema alla Festa del Cinema di Roma dopo il passaggio allo Shanghai International Film Festival. Il film, di cui si può trovare la scheda sul sito IMDb, è ispirato a una storia vera: quella di un’assistente sanitaria accusata di aver ucciso dozzine di anziani. Segna l’esordio alla regia di Wang Tong, che costruisce un racconto intriso di ambiguità morali. Un film che non riesce sempre a trovare il proprio equilibrio, oscillando tra tensione psicologica e lentezza contemplativa.
La trama: un conto alla rovescia

Ye Xiaolin è una giovane badante che passa di casa in casa, avvertendo ogni volta le famiglie che, qualunque cosa accada nel corso del mese, dovranno comunque pagarle l’intero stipendio. Dietro questa richiesta apparentemente pragmatica, però, si nasconde un disegno gelido: ogni incarico diventa un conto alla rovescia, un orologio che segna gli ultimi istanti dei suoi pazienti.
Durante l’ennesimo incarico, Xiaolin incontra Ma Deyong, figlio dell’anziano di cui si occupa, guardiano di uno zoo in disfacimento e prigioniero di una vita fatta di alcol e rassegnazione. Tra i due nasce un legame ambiguo, fatto di silenzi e diffidenza, che lentamente si trasforma in qualcosa di più, alimentato dallo sguardo ingenuo di Deyong, che in lei vede una creatura timida e angelica.
Eppure, l’immagine di Xiaolin comincia a incrinarsi, perché dietro la sua pazienza si cela un’aura oscura, quella di una donna che considera la morte non come una condanna, ma come l’unica forma possibile di liberazione.
Quando le coincidenze diventano troppe e la polizia inizia a indagare, resta un solo, inquietante interrogativo sospeso nell’aria: Xiaolin è un angelo della misericordia o della morte?
Wild nights: l’estetica della decadenza

Wild Nights non è solo la storia di una donna, ma lo specchio di una società in cui l’anzianità è confinata ai margini, dimenticata sia dallo Stato che dalle famiglie. In questo sistema apparentemente intatto, Xiaolin è la crepa. Una donna con la grazia di un angelo e la freddezza di un predatore, che non uccide né per odio né per denaro, ma per un senso distorto dell’ordine. È lei che decide chi deve andare e quando, facendosi carico di un diritto assoluto: il diritto alla vita.
Wang Tong lascia volutamente che lo spettatore condivida la stessa incertezza dei personaggi che la circondano. Della protagonista non si sa nulla: né da dove venga, né se abbia una famiglia, né cosa l’abbia spinta a questo lavoro. È un enigma senza passato, di fronte al quale anche la polizia è impotente. Il film non si pone l’obiettivo di spiegare questa ambiguità, ma più semplicemente di farci convivere con essa.
A volte sembra che Xiaolin agisca per altruismo, alleviando la sofferenza di chi non ha più forze; altre volte, invece, il suo sguardo suggerisce che nella morte trovi una qualche forma di piacere. Questa ambiguità si riflette anche nelle famiglie che la assumono: nessuno osa dirlo apertamente, ma molti sembrano sollevati quando i propri cari passano a miglior vita. Lo ammette esplicitamente la sorella di Deyong, che confessa di aver deciso di non portare più il padre in ospedale in caso di una ricaduta. In fondo, Xiaolin fa ciò che molti desiderano ma non hanno il coraggio di fare.
Significativo è il parallelismo tra la donna e il leone che Deyong accudisce come un figlio: due creature prigioniere, due istinti repressi. Entrambi reagiscono alla gabbia in cui la società li ha rinchiusi. È come se Wang Tong volesse ricordarci che gli esseri umani, nati per istinto e ribellione, vengono addomesticati dalla disciplina e dalla paura. Ma ciò che viene represso non scompare: fermenta per poi esplodere.
A rendere ancora più incisivo questo discorso è l’impianto visivo del film. Wang Tong trasforma gli spazi in proiezioni dello stato d’animo dei personaggi: l’appartamento dell’anziano, costruito a metà e poi abbandonato, dove i mobili di lusso convivono con le macerie, è il simbolo del fallimento; lo zoo in rovina, dove Deyong vive tra gabbie arrugginite e bottiglie vuote, rappresenta l’abbandono. Al contempo, la fotografia, dominata da toni freddi, costruisce un’atmosfera fatta di distanza e solitudine.
A essere cifra stilistica e tematica insieme è la lentezza: quella nella vita degli anziani, che si trascinano giorno dopo giorno in un mondo che per loro non ha più stimoli; quella della vita di Deyong, che osserva il leone in un loop infinito; infine, quella di Xiaolin, che al momento dell’arresto confessa di aver atteso tutta la vita quel momento, come se fosse qualcosa che potesse finalmente portare una svolta, la pace. Tuttavia, questa lentezza tocca anche lo spettatore: Wild Nights ha un ritmo lento, con pochi momenti di climax e lunghi silenzi. Una scelta coerente ma rischiosa, che spesso e volentieri indebolisce la tensione e l’interesse.
Ma non è l’unico limite del film: la componente investigativa viene appena accennata, i poliziotti sono comparse saltuarie, non si menziona in che modo svolgano le ricerche o più semplicemente i loro pensieri e dubbi; anche il rapporto tra Xiaolin e Deyong sembra rimanere incompiuto, più intuito che realmente esplorato. Forse, però, è proprio in queste imperfezioni che si avverte la sincerità di un esordio.
Un thriller che non offre spiegazioni
Wang Tong realizza un thriller dalle venature noir che si nutre più di sguardi e respiri che di colpi di scena. Un film non didascalico, che non ci chiede di uscire dal perimetro del dubbio, perché la pietà e la crudeltà a volte parlano la stessa lingua.
Fonte dell’immagine: ufficio stampa

