Il libro di Kalīla wa Dimnah (كليلة ودمنة) è una celebre raccolta indiana di apologhi, ovvero favole allegoriche, in cui i protagonisti sono animali parlanti con uno scopo morale. La sua storia è un affascinante viaggio attraverso culture e lingue, dal sanscrito all’arabo, fino a influenzare la letteratura occidentale.
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Le origini indiane: dal Tantrākhyayika al Pañcatantra
L’opera originale e più antica è il Tantrākhyayika («Libro di casi di saggezza»), una raccolta sanscrita di cinque capitoli in cui si intersecano molte storie. Queste non hanno solo fini morali e pedagogici; spesso lo scopo è insegnare l’arte del governo, anche attraverso azioni poco leali come l’inganno. A questa si è ispirata la raccolta del Pañcatantra (in sanscrito «i cinque libri»), un’opera di fondamentale importanza nella letteratura indiana, come attestato da fonti autorevoli quali l’Encyclopædia Britannica. È in questa versione che compaiono i due sciacalli protagonisti, Karataka e Damanaka, che hanno dato il nome a tutta la raccolta nella forma arabizzata di Kalīla e Dimnah.
Tappa evolutiva del testo | Descrizione e contributo |
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Originale sanscrito (Pañcatantra) | Rappresenta il nucleo di favole con scopi morali e di arte del governo. |
Traduzione pehlevica (VI sec. d.C.) | Primo passaggio culturale che ha permesso la sua diffusione fuori dall’India. |
Rielaborazione araba (VIII sec. d.C.) | Versione di Ibn al-Muqaffa’, che ha arricchito e reso celebre l’opera nel mondo islamico. |
La rielaborazione di Ibn al-Muqaffa’
Di origini persiane, Ibn al-Muqaffa’ ha vissuto per molti anni a Bassora, centro culturale in incessante fermento. Più che tradurre l’opera dal pehlevico, egli è riuscito a rielaborarla nel sec. VIII d.C. (aggiungendo altre storie e introduzioni) senza stravolgerla. Ibn al-Muqaffa’ scrive “è un libro composto dai dotti, ed elaborato dai saggi”, “un libro su ciò che i re devono conoscere per governare i sudditi”. Nel capitolo II, Ibn al-Muqaffa’ spiega il fine ultimo dell’opera: permettere all’uomo di raggiungere la felicità attraverso la conoscenza di se stessi e degli altri, solo così si può capire cosa è bene e cosa è male.
La favola dell’eremita e il gioielliere: storia e morale
Degli uomini scavarono una buca per catturare degli animali feroci. Purtroppo, vi caddero un gioielliere, una tigre, un serpente e una scimmia. Un giorno passò di lì un eremita, calò una corda e uscirono la scimmia, la tigre e il serpente. Una volta fuori, gli animali ringraziarono l’eremita e gli consigliarono di non aiutare l’uomo, descritto come un ingrato. L’eremita non ascoltò e aiutò anche il gioielliere. Dopo tempo l’eremita si trovò nella loro città. Ricevette dalla scimmia dei frutti e dalla tigre dei gioielli (rubati alla figlia del re, uccisa). Andò dall’orafo per vendere i gioielli, ma questi lo riconobbe e andò a denunciarlo al re. Fu condannato a morte e, mentre veniva percosso, si pentì di non aver ascoltato gli animali. A quel punto il serpente morse il figlio del re e poi diede all’eremita una pianta come antidoto. L’eremita si recò dal re col rimedio, raccontò la verità e il ragazzo guarì. Il re offrì all’eremita la sua amicizia, mentre il gioielliere fu ucciso.
La morale è chiara: Ibn al-Muqaffa’, attraverso il filosofo, fa comprendere al re che, nella vita, bisogna sempre ricorrere al discernimento, ovvero a quella facoltà di formulare un giudizio per scegliere il comportamento corretto a seconda della situazione, per attingere la felicità ed evitare il pericolo.
La diffusione dell’opera in Occidente
La conoscenza che l’Occidente ha avuto del Kalīla wa Dimnah e il suo successo sono dovuti proprio alla versione di Ibn al-Muqaffa’. Grazie a lui, dall’Iraq del sec. VIII le favole raggiunsero la Francia, la Spagna, l’Italia e la Sicilia dei Normanni. Oltre che un forte eco, altro aspetto che ne attesta la fortuna è che la raccolta è stata imitata da molti grandi autori: Boccaccio, Poggio Bracciolini, il Firenzuola, e La Fontaine.
Immagine di copertina – fonte: Wikimedia Commons
Articolo aggiornato il: 09/09/2025