Maria Franzè e fili sottili del vissuto in Le donne, i bambini e la guerra

“Le donne, i bambini e la guerra”, edito da GM Press, è il  nuovo libro di Maria Franzè, classe ’69. Il testo sarà, inoltre presentato il 26 maggio presso Ex Circuì di Roma (Via della Vetrina, 15).

Leggendo il libro di Maria Franzè ci si rende subito conto di come i destini così variegati dei personaggi che abitano il romanzo siano legati dalle esperienze sottili che “accadono” inevitabilmente. Sembra esserci un filo piccolissimo che tiene insieme tutte le storie inserite nel solco del cambiamento. “Le donne, i bambini e la guerra”, è diviso infatti in diverse sezioni nelle quali ci sono punti di vista e situazioni differenti, e anche la scrittura cambia.

Ad una prima impressione, risalta subito la caratteristica del testo in forma epistolare, quale strumento fondamentale di spontaneità e privo di artifici retorici (inutili) che altrimenti andrebbero a scalfire quel bisogno di autenticità che si ha quando si vuole raccontare qualcosa senza veli.

L’importanza della scrittura nel romanzo di Maria Franzè è centrale, perché è ciò che unisce la distanza fisica, ad esempio tra due sorelle, come Clelia e Vittoria, ed è ciò che dovrebbe chiarificare una scelta, come nel caso dei genitori di Marta. Inoltre la scrittura, anche quando non è in forma epistolare, è capace di portare il peso delle immagini di un’infanzia negata a causa della guerra come nel caso di Sven, o del piccolo Mile.

La forza del libro inoltre risiede nelle figure femminili che mostrano una forza disarmante, specialmente in situazioni particolarmente dure da affrontare da sole. Ad esempio le due sorelle Clelia e Vittoria, echi di una generazione precedente, mostrano di saper vivere nella delicatezza dei campi a San Nicola, trovando vigore nella forza materna.

Inoltre accettano il cambiamento con grande maturità e consapevolezza, affidando alle lettere un sentimento fortissimo che le legherà per tutta la vita nel ricordo e nell’innocenza. L’amore per la famiglia, e l’attaccamento al destino “capitato” è così forte per la trasmissione del “codice morale” di mamma Angela, che insegna alle figlie soprattutto di essere autosufficienti: “L’omini nun sannu e nun ponnu stari suli, ‘na fimmina sì: sapi lavari, cucinari e cusiri e puru lavurari inta i campi, si voli” [1].

Al contrario, la situazione raccolta nella parte centrale del libro, propone le immagini di un’altra guerra. Prima i conflitti mondiali, la povertà, l’emigrazione forzata, le famiglie distanti, e la pazienza, come nel caso di Clelia e Vittoria. In seguito sono mostrate immagini di famiglie che vivono una guerra intestina nella stessa casa, in cui una moglie deve trovare il coraggio di giustificare il marito violento e amarlo per ogni calcio nello stomaco.

Solo dopo, una volta raccolto tutto il coraggio e la consapevolezza, Sara decide di scrivere una lettera al marito Giovanni in cui decide di lasciarlo. Ecco un’altra figura dalla femminilità intensa, con lo stesso spirito di Vittoria, Clelia, e di Jovanka.

Un altro conflitto: la famiglia

Non è il legame di sangue che definisce una famiglia, ma l’amore”, scrive in una lettera al padre la stessa figlia di Sara, Marta. Questa è un’espressione molto forte che racchiude in sé il senso di una generazione precedente, come l’amore semplice di Clelia e Vittoria, descritto dai figli Antonio e Angy, con grande delicatezza, in contrasto alla complessità della natura umana: “vizi e natura fino a sepoltura”. [2]

La guerra, in questo senso, sembra attecchire non solo nei campi deserti e rasi dalle bombe, ma anche nella propria casa, nella routine giornaliera e va a spogliare l’ingenuità di un bambino della sua infanzia. Da qui nasce un contrasto molto forte. Da una parte c’è tutta la curiosità  e ingenuità infantile, e il dolore difficile da definire. Dall’altra c’è l’insensatezza degli adulti, non più capaci di vivere della semplicità, come una volta, ma di piantarsi nel conflitto.

Anche il cambiamento è un tema centrale nel libro. Esso può indicare un risvolto positivo come nel caso di Vittoria, ma anche un profondo senso di alienazione, o destabilizzazione come nel caso di Clelia in America. Considerando le figure di Sven e Jovanka, si può avere la sensazione di seguire un percorso di macerie infinite e di morte, specialmente dopo la scomparsa del piccolo Mile, dando l’impressione di aver staccato dal ventre materno un bambino troppo piccolo per la guerra.

Tuttavia, da come si evince nell’ultima parte del libro, Sven, un bambino scappato dagli orrori della guerra, che porta dentro di sè “i ricordi incancellabili di quel vivere in gabbia”, alla fine riuscirà a trovare la calma con la sua mamma. Difatti una speranza sarà l’amicizia di Lisa e Simone, e dopo aver visto “il tempo inghiottito dall’orrore in un’ecatombe generale, una lotta di tutti contro tutti” [3]  finalmente può tornare a giocare.

[1] Maria Franzè, Le donne, i bambini e la guerra, GM Press, (p.22)
[2] Maria Franzè, Le donne, i bambini e la guerra, GM Press, (p.31)
[3] Maria Franzè, Le donne, i bambini e la guerra, GM Press, (p.80)

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A proposito di Chiara Rotunno

Sono Chiara, psicologa, classe '91, iscritta all’Ordine degli Psicologi della Campania. Appassionata fin dalla prima adolescenza al mondo della psicologia, amo cogliere la complessità dell'essere umano e confrontarmi con realtà diverse. Le mie grandi passioni sono: i viaggi, i libri, la fotografia, il cinema, l'arte e la musica.

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