Tutta la polvere dell’India: intervista ad Antonio Di Vico

Tutta la polvere dell’India racconta un viaggio reale, compiuto a piedi per oltre 1800 chilometri da Dharamsala fino a Mumbai. Antonio Di Vico parte dopo un periodo difficile, segnato da un lutto e da un senso generale di smarrimento. La sua non è una fuga, né una ricerca spirituale programmata: è piuttosto la decisione concreta di rimettere ordine dentro di sé attraverso qualcosa di semplice e radicale allo stesso tempo, il camminare.

Il libro segue passo dopo passo questo percorso, mostrando l’India non come un luogo idealizzato, ma come un Paese immenso e complesso, in cui modernità, tradizioni e contraddizioni convivono senza confini netti. Per approfondire la complessità di questa nazione, è possibile consultare la pagina dedicata all’India sulla Encyclopaedia Britannica. L’autore attraversa villaggi, strade trafficate, zone rurali e città in espansione; incontra persone curiose, generose, talvolta diffidenti; sperimenta la solitudine, ma anche quella forma di compagnia che nasce quando qualcuno ti offre un chai o ti indica la strada senza chiedere nulla in cambio.

La narrazione alterna osservazioni sul paesaggio e sulla vita quotidiana alle riflessioni personali dell’autore. Non c’è un tono mistico né un intento morale: Di Vico racconta le difficoltà fisiche, la fatica delle lunghe distanze, il caldo, i momenti di incertezza e le situazioni inattese, animali lungo il cammino, disagi logistici, imprevisti che in India non mancano mai. Allo stesso tempo descrive gli aspetti più sorprendenti e umani del viaggio: gli incontri casuali che diventano memorabili, le conversazioni essenziali anche senza una lingua comune, la sensazione di essere accolti da un Paese che, pur caotico, sa offrire spazi di comprensione inattesa.

Un elemento centrale del libro è l’onestà con cui l’autore guarda a sé stesso. Non costruisce un eroe, né un pellegrino, né un esploratore: rimane un uomo che cammina, che osserva, che si confronta con i propri limiti e con la propria storia. L’ironia, spesso rivolta a sé, alleggerisce i momenti più intensi e rende il racconto accessibile, quasi confidenziale.

Nel complesso, il libro offre una testimonianza diretta su cosa significhi attraversare un Paese vasto come l’India a piedi: non solo una lunga avventura, ma un modo per ristabilire un ritmo più umano, fatto di lentezza, contatto, imprevisto. Il cammino si rivela uno strumento per guardare il mondo con più attenzione, e per lasciare che il mondo, persone, paesaggi, rumori, polvere, lasci un segno, non tanto mistico quanto concreto.

Ne emerge un racconto che unisce viaggio, introspezione e quotidianità senza eccessi né artifici, indicando che a volte basta mettersi in cammino per ritrovare un po’ di chiarezza, anche se non si sa esattamente cosa si troverà alla fine della strada, alla fine del proprio viaggio interiore.

Intervista all’autore Antonio Di Vico

Il significato della ‘polvere’ nel titolo

Ciao Manuele, e grazie per questa intervista. Il bisogno di raccontare questo Paese nasce da un amore che dura quasi vent’anni: il mio primo viaggio in India risale al 2006. Ogni volta che ci torno qualcosa in me si muove, si incrina, si rimette in discussione. E questa volta, attraversandola a piedi, lontano da qualsiasi circuito turistico, questo processo è stato ancora più intenso.

Dopo 1.800 km tra strade di campagna e autostrade trafficate, la sensazione era davvero quella di averla mangiata tutta, la polvere dell’India. Ma quella polvere non è solo ciò che ti si attacca addosso dopo una giornata di cammino: è ciò che ti entra dentro. Sono le storie delle persone reali, i volti segnati dal tempo, le contraddizioni, i gesti di gentilezza inaspettati, tutta l’umanità che ho incontrato.

Per me ‘la polvere’ è il simbolo del mondo reale, senza filtri. Quel mondo che ti costringe a guardarti allo specchio mentre cerchi qualcosa — e spesso trovi altro.

Fotografia e scrittura: un dialogo tra linguaggi

Quando ho iniziato il mio cammino, la mia intenzione era semplice: catturare quanta più bellezza possibile. Volevo registrare non solo ciò che vedevo, ma anche ciò che sentivo mentre camminavo. Alla fine però ho capito che la fotografia era molto più di questo: era una chiave, una scusa gentile per entrare nelle vite delle persone che incontravo, per andare oltre la mia naturale timidezza.

Da fotografo guardo il mondo per frammenti, per dettagli, per luce. E questo modo di osservare ha inevitabilmente influenzato anche la scrittura: mi ha insegnato a fermarmi sulle piccole cose, a cercare l’essenziale, a raccontare un momento e non solo un paesaggio.

Scrivere, però, è stata una sfida diversa. La fotografia congela un istante; la scrittura deve restituire tutto quello che c’è intorno: il rumore, la polvere, le contraddizioni, l’odore dell’aria. Nel libro ho voluto inserire anche un piccolo portfolio fotografico proprio per sottolineare questa sinergia tra immagini e parole: per non lasciare tutto all’immaginazione del lettore, ma provare a trasportarlo nella realtà che ho vissuto in prima persona.

Osservare il caos per comprenderlo

Camminare anche per 14 ore al giorno, per la maggior parte del tempo in completa solitudine, mi ha obbligato a un doppio tipo di osservazione: quello rivolto al mondo fuori — il traffico, le persone, il terreno accidentato — per ovvi motivi di incolumità; ma anche, o forse soprattutto, quello rivolto a ciò che accadeva dentro di me, in reazione alle scene molto forti di cui ero testimone.

Non potevo scappare, non potevo chiudere la porta di una guesthouse e isolarmi: ero lì, esposto, e l’unica cosa da fare era rallentare e guardare. E più osservavo, più questo apparente caos diventava leggibile.

La struttura del libro: tra diario e riflessione

Questo libro è molte cose insieme. Sicuramente è un diario di viaggio, e direi anche un diario molto onesto: non mi sono censurato e ho raccontato anche i momenti più bui, quelli che di solito si tende a lasciare fuori dalle narrazioni romantiche del viaggio.

Ma è anche molto altro. È una dichiarazione d’amore all’India, il posto dove per me tutto inizia e tutto finisce. È la storia di una rinascita, la mia. Ed è, allo stesso tempo, il racconto ironico di “come camminare due milioni di passi senza raggiungere uno straccio di illuminazione”. Perché in fondo il tono del libro oscilla sempre tra profondità e autoironia, tra ciò che ho vissuto fuori e quello che si muoveva dentro di me.

Cosa speri che il lettore provi leggendo il libro?

Innanzitutto spero che questo libro possa affascinare chi in India non c’è mai stato, e allo stesso tempo offrire uno sguardo non scontato a chi l’ha già visitata. In Tutta la polvere dell’India racconto un Paese che cambia a una velocità impressionante: l’India del boom economico che si sovrappone a quella permeata da una spiritualità anch’essa senza tempo, al di là dei clichè della povertà.

Ma più di tutto mi piacerebbe che il lettore, mentre cammina con me tra queste pagine, potesse guardare anche un po’ dentro se stesso. Perché in fondo questo viaggio è sì un attraversamento geografico, ma è soprattutto un percorso interiore. E se anche solo una persona si ritroverà a riconsiderare qualcosa della propria vita, allora il libro avrà fatto il suo lavoro.

Fonte immagine: fornita dallo scrittore Antonio Di Vico.

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