Una gioiosa fatica di Angelo Gaccione (2025), a cura di Giuseppe Langella ed edito nella collana di poesia civile Fendinebbia da lui diretta per la casa editrice La scuola di Pitagora, è un’antologia poetica di profonda consapevolezza; in essa l’autore non raccoglie semplicemente componimenti scritti durante l’arco della sua vita, bensì definisce le tappe cruciali della propria biografia intellettuale attraverso la poesia. Leggendo le pagine di Una gioiosa fatica si ha la sensazione, infatti, di percepire una quasi totale sovrapposizione tra la biografia dell’uomo e quella del poeta, in quanto le poesie raccolte nella sezione prima, Le ritrovate, sono risalenti alla prima giovinezza di Gaccione ed in esse è possibile già scorgere gli esiti del lirismo che progredirà nei componimenti scritti nell’arco di un’intera vita: una personalità poetica latente che si manifesta all’altezza cronologica a cui risalgono le poesie “ritrovate” e che si definisce lungo l’intero libro, riflesso di un’esistenza intenta nella “gioiosa fatica” del costruire poesia.
È sulla base di questa considerazione che Una gioiosa fatica assume la fisionomia di qualcosa di molto di più di una semplice raccolta di poesie. Il lettore di questo libro avrà, dunque, modo di conoscere l’andare e il ritornare poetico di un ingegno dinamico e in continua riflessione, quasi di dialogare con il suo autore, arrivando a comprendere, e a condividere, gli impulsi poetici e morali che danno origine ad ogni verso.
Una gioiosa fatica: dialogo con l’autore Angelo Gaccione
La sua raccolta Una gioiosa fatica custodisce il frutto di una devozione poetica durata un’intera vita. Nel suo Incipit, così principia: «La poesia mi è appartenuta. Io sono appartenuto alla poesia». Qual è stata la scintilla che ha originato questo «rapporto cominciato presto e [che] non si è mai interrotto»?
Penso sia stato un problema di sensibilità, di sensibilità eccessiva impossibile da tenere a bada; non saprei spiegare diversamente questa “urgenza” che ha preso corpo in un’età tanto giovane. In fondo ero poco più che un ragazzo quando la scintilla, come correttamente ha detto lei, si è accesa, si è rivelata.
Leggendo l’Ouverture di Franco Loi in soglia del suo volume, si apprende che le due sole poesie che compongono la sezione liminare de Le ritrovate sono scritte all’altezza dei tredici anni circa; rileggendole ora, quale distanza percepisce col suo attuale sentire poetico?
Li aveva conservati mia madre, quei due brevi testi, e fortunosamente non sono andati dispersi. Riletti da adulto mi sono stupito del disagio che rivelano e dell’inquietudine che fermentava nell’anima di un adolescente qual ero. Forse quel sentire ha contaminato tutto il percorso poetico fino all’età tarda.
Ancora nel suo Incipit, scrive: «Ho letto e continuo a leggere i poeti di ogni luogo e di ogni tempo, e senza prevenzioni, tanto che posso con semplicità affermare che la poesia ha riempito la mia vita e me ne sono nutrito. In maniera discreta, ma continua, l’ho sempre praticata». In virtù di questo, quali sono le tappe e i modelli principali della sua continua pratica e formazione poetiche?
Una gioiosa fatica comprende una parabola temporale molto lunga ed è naturale che la pratica poetica venga influenzata dal nostro vissuto e dal nostro sguardo sul mondo. Le sezioni in cui è diviso il libro, dodici (per coerenza con la Collana editoriale sono state tenute fuori altre cinque sezioni che componevano l’intero corpus: Le amorose, Le svagate, Le appassionate, Le attonite, Le amare), lo mostrano sia per tematiche che per stile. O, se preferisce, per mutamento di sguardo e di linguaggio.
Già ad una prima lettura, balza all’occhio la natura composita di Una gioiosa fatica e delle sezioni che compongono il volume. In termini di cronologia delle poesie, ad esempio, nel gruppo de Le straniere, risalenti agli anni ’80, appare una poesia datata ottobre 2019; o, ne Le milanesi, il lasso temporale abbraccia i primi anni ’80, il 1999, per poi balzare al 2020, tornare indietro al 2006 e ritornare al 2019; ciò si verifica anche per altre sezioni. In tal senso, quale è stato il criterio di selezione e di ordinamento delle poesie della sua raccolta?
Come scrive il filosofo Fulvio Papi nella sua postfazione, ho preferito una enucleazione per temi “rispetto al segno temporale”. Anche se come avrà visto tutte le poesie portano una data e un luogo. Mi sembrava più coerente procedere secondo questa scansione, proprio in virtù del senso e della ripetizione di cui ha parlato Papi.
In un componimento de Le illuminate, non titolato, scrive: «Fermate la morte sull’uscio | datemi il tempo di raccogliere | le ultime conchiglie | dopo la bassa marea | devo ordinare le mie carte | e spolverare il vestito | voglio che la morte | mi trovi pulito». Se messo in relazione con i versi di altre poesie di carattere più strettamente civile (ad esempio Ventinove versi, 2011; Cinquantanove versi, 2011; Da una parte sola, 2020; Poesia impertinente, 2022), è possibile notare un’antinomia tra l’io lirico, super partes ed esplicitamente espresso, e un “voi” o un “loro”. Cosa può dire di questo legame antinomico del suo “io” col mondo?
Tutta questa raccolta, ma direi la mia intera produzione poetica, oscilla fra un io lirico ed esistenziale più privato e un io sociale che si confronta con quella che potremmo definire una macro-realtà senza confini. Una macro-realtà a volte scandalosamente empia e disumana, pullulante di vite e di eventi a cui l’io sociale non può restare indifferente. Un io sociale che si indigna o riflette e si fa voce collettiva.
Emerge una tensione “civile” nella sua opera che è difficile non notare. Cosa significa per lei “poesia civile” e in che modo essa ritrova utilità in un mondo che pare alla deriva?
Nella raccolta di riflessioni e aforismi dal titolo Schegge, uscita nel 2024, ce n’è uno che ha per titolo Poesia civile e così recita: “È civile tutto ciò che oppone l’umano al disumano”. Ogni volta che ci opponiamo al disumano noi facciamo una scelta civile. Per citare le parole del critico e poeta Giuseppe Langella, nessun poeta dovrebbe “Distogliere lo sguardo dall’abisso verso cui siamo incamminati” perché se lo facciamo questo ci renderà “complici del più assurdo genocidio della storia terrestre: la cancellazione della specie umana”. Dobbiamo contribuire a “scongiurare il peggio” come scrive Langella, usare anche la parola poetica per porre un argine al male, per “rendere meno maledetto il mondo” come ebbe a scrivere Elsa Morante. Senza dimenticare l’impegno personale portando il proprio corpo là dove l’empietà e il disumano lo esigono; mescolandolo agli altri corpi che parlano e si muovono concretamente dentro lo spazio pubblico. È una lezione che ho fatto mia sin da giovanissimo e non ho mai derogato.
La figura femminile nelle sue poesie sembra assumere un valore particolare: essa pare talora consentire una prospettiva diversa all’osservare poetico (Vecchiaia, 2014), talaltra appare come pacificatrice del suo “io” col mondo (vedi ad esempio Place de la Concorde, 1980). Ci parla della presenza della donna nei suoi versi?
In questa raccolta mancano le sezioni amorose, le appassionate, e anche le dolorose espunte per esigenze editoriali. Tuttavia qualche eco si può trovare in testi come Anniversario o Acrostico. Qui si tratta di donne che mi appartengono per consanguineità, e i versi si riferiscono ad un evento lieto: l’ingresso nel mondo della mia adorata nipotina. E poi c’è La conta, gioiosa, ma dal retrogusto amaro. Forse la presenza femminile più pregnante si trova nei ritratti che ho composto numerosi nel volume di racconti Sonata in due movimenti e nei testi teatrali raccolti nel volume Ostaggi a teatro. Ma se me lo permette vorrei regalare ai suoi lettori questo testo inedito che si trova nella sezione de Le amorose. È del 18 ottobre del 2021, non ha titolo, ma mi rappresenta abbastanza.
E quando arriverà la pioggia,
quella che il vento sferza di sghimbescio
– la più amara e anche traditrice –
io sarò lì con te per sostenerti.
Terrò saldo nel pugno il parapioggia
quello più grande, quello di riserva,
per ripararti da ogni sua ferita.
Per gli occhi no, non ci sarà riparo,
ma il pianto puoi adagiarlo sul mio petto
lo terrà caldo e gli darà conforto.
La tematica della morte è presente indirettamente in varie poesie (ad esempio nella sezione Le sacre), ma sembra palesarsi maggiormente sul finire del libro, nel gruppo de Le ultime, che raccoglie poesie risalenti a novembre 2022: ne sono un esempio Misteri e Istinto e destino; tale tematica sembra intrecciarsi a quella trascendente, riflessa da una prospettiva umana (Dio e la chimica, Non est requiem, Controversia sull’anima). Inoltre, in tal senso, mi viene in mente l’incipit di una poesia precedente, Per padre David Maria Turoldo (2015-2016): «Sono venuto sulla tua tomba di credente | perché hai tuonato spesso contro il Cielo | e la tua fede ha più volte vacillato». Quale è il rapporto della poesia con la fede e il trascendente? Cosa può dire a proposito?
Nel libretto Poeti. Ventinove cavalieri e una dama, pubblicato dalla Di Felice Edizioni, c’è un testo che ha per titolo Testori. In quei versi ho immaginato un irrisolvibile conflitto fra il poeta e Dio destinato a non avere tregua. Il rapporto della poesia con la fede e la trascendenza ha una lunga tradizione e basterebbe fare i nomi di due giganti come Rebora e Turoldo. E quello dello stesso Testori, naturalmente. Io sono più interessato alla sacralità delle cose e degli esseri. Soprattutto alle cose più umili e minute su cui gli uomini hanno lasciato i loro segni, infuso la loro intelligenza, nate dalla loro passione. Un semplice oggetto passato di mano in mano, privo di valore di scambio, può arrivare a commuovermi. Come le vite umili, pacifiche, spoglie, private da ogni male. La raccolta Spore pubblicata alcuni anni fa da Interlinea rivela quanto quei versi siano impastati di sacralità.
Milano trova spazio privilegiato nei suoi componimenti, sia come luogo della loro stesura sia nella precipua sezione Le milanesi: città reale e città ideale, ambiente e carattere dei suoi versi. Quale è il legame della vera Milano con la Milano poetica?
Domanda difficile. La Milano “poetica”, architettonicamente poetica, dalle atmosfere poetiche, è stata umiliata e violentata. La guerra con i bombardamenti da un lato ed il saccheggio urbano dall’altro ne hanno disperso i tratti. I poeti l’hanno celebrata numerosi, come ho dimostrato con le due antologie da me curate per la Viennepierre: Poeti per Milano e Milano in versi. Poeti di ogni luogo, soprattutto non milanesi. Io posso parlare del mio rapporto con Milano, con la mia Milano, su cui ho scritto molto e continuo a farlo. Scrivo in sua difesa e scrivo delle sue bellezze e del suo degrado. Scrivo del suo muto dolore e del mio. A volte prevale lo sconforto, e per non disperare del tutto mi ripeto mentalmente i versi di Città mia che si trova a pagina 55 di Una gioiosa fatica. E mi rassereno.
Fonte immagine: Angelo Gaccione, aprile 2025 (fornita dall’Autore).