Consapevolezza e comunicazione sostenibile in sanità pubblica

Nel cuore della sanità pubblica, dove ogni gesto dovrebbe essere cura e ogni parola attenzione, si insinuano dinamiche che sembrano provenire da un’altra epoca, fatte di silenzi, verticalità, mancate spiegazioni. La gestione del personale, in molti contesti sanitari, si muove ancora secondo una logica gerarchica opaca, più militare che comunitaria, più aziendale che umana. Si cambia reparto, si cambia turno, si cambia sede, senza spiegazioni, senza una parola, e quello che è peggio senza nemmeno un riconoscimento del vissuto di chi lavora. È una pratica diffusa e silenziosa che ha un costo altissimo: quello della deresponsabilizzazione, della perdita di motivazione, della rottura del senso di appartenenza. Fare girare il personale come pedine su una scacchiera, senza comunicazione né trasparenza, significa dire implicitamente: “non sei tu, non è la tua competenza, non è il tuo impegno che conta, ma solo dove ci serve una presenza.” Ed è proprio così che si innesca una delle forme più sottili e pervasive di logoramento nelle professioni sanitarie: quella che spegne lentamente la motivazione e apre una ferita silenziosa che non lascia cicatrici visibili, ma che corrode dall’interno.

La sostenibilità in sanità non riguarda solo l’efficienza dei servizi o la gestione delle risorse. Riguarda anche, e soprattutto, la qualità delle relazioni interne. Una struttura può essere tecnicamente impeccabile, ma se al suo interno regna l’incomunicabilità, la sfiducia e la rotazione del personale priva di senso, allora è destinata a generare disagio, e il disagio, nel tempo, si trasforma in abbandono. Chi lavora in sanità non è un numero, è una persona con competenze, emozioni, relazioni, identità professionale. Ogni spostamento arbitrario, ogni decisione presa senza consultazione né confronto, agisce come un colpo alla soggettività. Disintegra lentamente la tessitura collettiva del lavoro di cura, che si fonda, prima di ogni protocollo, su una rete di fiducia reciproca. Eppure, nelle pratiche quotidiane di molti contesti sanitari, la comunicazione gerarchica si riduce spesso a ordini impersonali. Una mail, un foglio, una frase secca e nessun contesto, nessuna motivazione, nessun tempo per elaborare. In questo silenzio imposto si annidano stereotipi: l’idea che chi sta più in alto non debba spiegare nulla, che chi sta più in basso debba solo eseguire. È una visione arcaica, inefficace e disumana del lavoro, che sopravvive in molte strutture pubbliche come un retaggio mai veramente messo in discussione.

Decostruire questa logica è urgente, serve un nuovo lessico organizzativo, basato sulla consapevolezza comunicativa. Decostruire non significa distruggere, ma interrogare: perché prendiamo questa decisione? Chi coinvolge? Come verrà percepita? Che impatto avrà sulla qualità del lavoro, sull’identità del singolo, sul clima del gruppo? Non sono domande retoriche, ma strumenti operativi per praticare una leadership responsabile, sostenibile e umana. Perché sostenibilità non è solo risparmio, non è solo rotazione, non è solo “tenere in piedi il sistema”. È anche, e soprattutto, costruire ambienti dove le persone possano lavorare con dignità, comprendendo il senso delle azioni che vengono loro richieste. È il contrario del rendere invisibili,  il contrario dell’automatismo. E soprattutto ha il significato di  responsabilizzare, includere, formare e restituire voce.

Nel silenzio delle comunicazioni mancate si spegne la passione. E senza passione, la sanità pubblica perde la sua anima. È tempo di ricordare che ogni gesto organizzativo ha un peso umano. E che solo partendo da una comunicazione consapevole, partecipata, trasparente, possiamo costruire una sanità davvero pubblica: non solo perché accessibile, ma perché giusta. Ogni struttura sanitaria è, prima di tutto, un organismo vivo: fatto di persone, competenze, fragilità, bisogni, tensioni. Ma quando questo organismo viene gestito come una macchina, con parti da sostituire e ingranaggi da spostare senza una logica umana, allora l’intero sistema si ammala. Non all’improvviso, ma giorno dopo giorno, nella lenta erosione della fiducia e nella crepa invisibile che si apre tra chi dirige e chi opera sul campo. È in questo spazio che si perdono le energie migliori, le vocazioni più solide, le competenze più preziose.

La mancanza di spiegazione, di contesto, di parola, non è una mancanza neutra: è una scelta. Scegliere di non spiegare significa affermare un potere senza relazione. Un potere che non si prende cura. Quando il personale viene spostato da un reparto all’altro senza preavviso, senza ascolto, senza riconoscimento della propria professionalità, non si tratta solo di una questione logistica: si mina il legame tra il lavoratore e il luogo in cui opera, si distrugge l’identità collettiva, si sabota la coesione dei team, si innesca un senso di estraneità che ha conseguenze concrete anche sulla qualità dell’assistenza. Il danno più profondo, tuttavia, non si vede subito. Si manifesta in quel sentimento di non appartenenza che comincia a serpeggiare nei corridoi, nei turni, nelle stanze. Nessuno lo dice apertamente, ma lo si percepisce: si lavora con distacco, si abbassa la soglia dell’iniziativa, si smette di proporre. Il personale “gira”, sì, ma a vuoto. La macchina resta in moto, ma senza direzione. E chi guida non ascolta il rumore dei pezzi che iniziano a usurarsi.

Per questo è fondamentale parlare oggi, con chiarezza, di cultura organizzativa. Non è un accessorio. Non è una moda. È la condizione di base per una sanità pubblica che funzioni. Una cultura organizzativa sostenibile si costruisce a partire dal linguaggio, dal modo in cui si comunica, si coinvolge, si motiva. Le decisioni non possono calare dall’alto come ordini chiusi, ma devono inserirsi in un circuito di relazione, confronto, reciprocità. Non si tratta di democratizzare ogni scelta operativa, ma di restituire senso: far comprendere il “perché”, condividere il “come”, accogliere il “che cosa pensi”. Molti operatori sanitari, specialmente in ambito pubblico, non lasciano il lavoro per mancanza di passione o per lo stipendio. Lo lasciano per mancanza di ascolto. Per l’impossibilità di essere parte attiva del proprio contesto. Perché il linguaggio con cui vengono trattati diretto, impersonale, a volte umiliante, non è compatibile con l’etica del loro impegno quotidiano.

(Di Yuleisy Cruz Lezcano)

 

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