Farah Srour è una studentessa gazawi di lingua e letteratura inglese. Durante la guerra, ha avvertito l’urgenza interiore di salvare il futuro dei bambini, ricreando una scuola a Gaza. Tutti in cerchio in una tenda per imparare, tenersi compagnia, resistere.
È difficile pensare al futuro quando il presente è ridotto in macerie e non ha più parole. È una sfida che sembra un vuoto a perdere, una scommessa fallimentare.
Farah Srour ha 21 anni ed è un’insegnante di lingua inglese, nata e cresciuta a Gaza. Nel bel mezzo dell’inferno, ha deciso di preservare la cosa più fragile di tutte: il diritto dei bambini all’istruzione e al futuro.
A distanza, con un telefono cellulare e una connessione instabile ci ha parlato del suo progetto delle Challenge Classroom, della sua vita prima che tutto collassasse e della paura che il mondo distolga lo sguardo.
Una scuola a Gaza
«Sono una studentessa di lingua inglese e ho sempre avuto una profonda passione per l’educazione e per l’apprendimento. Quando la situazione a Gaza ha iniziato a collassare e il sistema educativo è precipitato, ho deciso di aiutare la mia gente e i bambini come potevo, insegnando quello che sapevo per combattere l’analfabetismo.
Parlare di istruzione, nel deserto creato dal genocidio, era una vera e propria sfida, per questo ho chiamato le mie classi Challenge Classroom».
Com’è un giorno di scuola a Gaza? Com’è nato il progetto delle Challenge Classroom?

«Tutto è iniziato nel maggio del 2024, non molto tempo dopo che siamo stati sfollati per la prima volta.
Guardandomi intorno vedevo bambini seduti in silenzio, chiusi in se stessi, traumatizzati. Avevano perso la scuola, la casa, gli amici, le famiglie, e io non sopportavo l’idea di vedere svanire il loro spirito e la loro vitalità.
Così ho deciso di riunirli, a gruppi, ogni giorno e di insegnare loro con qualsiasi mezzo avessi a disposizione. Utilizzo principalmente attività interattive e giochi per coinvolgerli e per alleggerire, almeno un po’, la realtà in cui viviamo. Cantiamo canzoni in inglese, recitiamo l’alfabeto, giochiamo con le parole.
Ognuno di loro si porta dietro delle ferie invisibili che probabilmente non andranno mai via, ma almeno durante le poche ore di lezione tutti noi ci sentiamo di nuovo persone, insegnanti e studenti. Per poche ore al giorno non siamo soltanto vittime. Una scuola a Gaza è una sfida sia per me che per i ragazzi, ma è anche l’unico modo che abbiamo per dimostrare a noi stessi e agli altri che siamo ancora qui, che siamo vivi e che le nostre menti sono ancora libere».
Com’è cambiata la tua vita negli ultimi due anni?
«Prima della guerra avevo una vita vera, avevo una casa a cui tornare, un senso di dignità, un senso di sicurezza. Avevo un percorso di vita in mente, degli obiettivi da perseguire e i mezzi per farlo. Ora dormo a terra, mangio ciò che riusciamo a trovare. Non ho risorse, né garanzie di sopravvivenza. È solo una lotta quotidiana per restare vivi.
All’inizio tutti noi ci chiedevamo perché proprio a noi, perché ai nostri bambini. La nostra fede però ci insegna che il dolore ha un significato e, anche se ora non riusciamo a comprenderlo pienamente, sappiamo che chi affronta una difficoltà con pazienza e resilienza sarà ricompensato. Ci aggrappiamo a questa convinzione e crediamo nella redenzione, non solo spirituale ma anche terrena».
Come ha reagito il mondo al dolore di Gaza?
«All’inizio c’erano proteste, indignazione, manifestazioni. Ora sembra che il mondo sia andato avanti.
Gaza scompare dai titoli dei giornali. Le persone tornano alle loro vite mentre noi continuiamo a soffrire ogni giorno, perché non abbiamo più niente. Urliamo, scriviamo, piangiamo, ma ci risponde solo il silenzio.
Mi sento dimenticata, non solo dai governi, ma anche da chi un tempo diceva di preoccuparsi e ora avrebbe la possibilità di aiutarci a ricostruire. È come se le nostre vite non contassero abbastanza da meritare l’attenzione del mondo e invece è proprio questa la fase più delicata per chi, come me, è ancora vivo».
Che cosa vorresti dire al resto del mondo?
«Per favore, non distogliete lo sguardo. Ascoltateci, guardateci, dateci la possibilità di rompere il silenzio. Non siamo solo numeri o titoli di giornale.
Siamo insegnanti che continuano ad avere il desiderio di insegnare anche nelle circostanze più difficili, affrontando ogni giorno nuove sfide. Siamo studenti che amano ancora imparare, anche senza aule.
Siamo madri, padri e bambini che vogliono vivere con dignità. Se volete aiutarci, alzate la voce, condividete le nostre storie, donate a organizzazioni affidabili, sostenete programmi che ci aiutino a ricostruire l’educazione — e soprattutto, ricordateci.
La vostra voce, la vostra solidarietà, la vostra consapevolezza possono essere per noi un’ancora di salvezza».
Immagini fornite da Farah Srour