Il terremoto del 1980 in Basilicata: il caso di Tito

Il terremoto del 1980 in Basilicata: il caso di Tito

Il terremoto che provò duramente l’Irpinia e la Basilicata la sera del 23 novembre del 1980 è un ricordo ancora vivo. Lo si constata chiacchierando con la gente.

I superstiti sono baluardi di testimonianze. Le testimonianze sono fondamenta della storia che è stata. La storia la scriviamo noi.

Quella che mi accingo a raccontare è una storia politica e umana, complessa per i problemi affrontati, per l’urgenza di soluzioni e per l’enorme carico di responsabilità. Rendo pubblico un mio contributo (per una Tesi di Laurea in Storia Contemporanea – aa. 2014-2015 – con relatrice Renata De Lorenzo, docente della Federico II di Napoli) alla ricerca sulla ricostruzione del Comune di Tito terremotato nel 1980 – sito in Basilicata in provincia di Potenza. Questo perché un evento come il terremoto, fenomeno naturale ed evento sociale, va studiato prendendo in considerazione la varietà delle identità colpite, in quanto ognuna ha in serbo il suo dramma. Beni dispersi, rovine e vite spezzate sono solo le immagini emotive che evocano una descrizione limitata del fenomeno del sisma. L’analisi dei dati relativi a esso ci permette di conoscere la storia di un’identità territoriale circoscritta, d’inserirla in un rapporto dialettico con la storia generale e di dare spazio alle testimonianze dei sopravvissuti.

Il terremoto e la ricostruzione a Tito

La ricostruzione post-sisma ha inciso sull’assetto di Tito e sulla sua conformazione umana e sociale. In una zona sismica come la Basilicata, un approfondimento sul post terremoto dell’Ottanta non può che proporre risposte e soluzioni possibili in base all’analisi delle esperienze negative e positive del passato, per lasciare poco spazio a improvvisazioni in caso di un prevedibile sisma e a una scarsa prevenzione. Discutere di questo tema può evitare che tutto si risolva in un mero efficientismo senza strategia e con dubbi risultati.
Sembra essere mancata una linea guida per la ricostruzione a Tito. Oltre ad aver subito una ricostruzione lenta, il Comune ha perso perlopiù il suo valore storico. È fallito anche il progetto di farne il perno dell’industrializzazione nel potentino, oltre che del suo più circoscritto territorio.
I fondi non sono mancati per poter restituire dignità ai sopravvissuti, a Tito e in Basilicata ma, senza dar adito a sospetti, va denunciato l’uso strumentale da parte della stampa dei motivi del fallimento di varie iniziative.
Non si può, dunque, inquinare ingiustamente l’immagine della ricostruzione e sviluppo nella regione lucana, in quanto nel post terremoto c’è stata un’evoluzione che ha portato sicuramente a una crescita economica e urbanistica. La ricostruzione di Tito, ad esempio, non ha sortito gli effetti sperati, non avendo tenuto conto di parametri ottimali nelle scelte dell’uso del territorio e della mobilità sociale, ma il Comune è migliorato notevolmente e si è operato a norma di legge. Inoltre si è maggiormente sensibili alla necessità di una cultura diffusa in merito alla responsabilità civica e della prevenzione. Oggi si è meno impreparati rispetto a un evento prevedibile quale è il terremoto e gli amministratori hanno una consapevolezza maggiore nel gestire una situazione d’emergenza.
Il 23/11/1980 mostrò agli abitanti quanto forte fosse il proprio attaccamento alla vita con l’incombere del pericolo di morte.
I titesi, che, con spirito religioso o meno, dalla mancanza di vittime, pur nella tragedia del terremoto, hanno colto una possibilità di rigenerazione morale, potrebbero essere paragonati al ladro e al giullare della canzone di Bob Dylan, All along the watchtower.
Come loro, a scapito di chi va ripetendo ancora che vivere è soltanto un gioco, c’è chi pensa, in virtù del trascorso, che la vita non sia vacuità e vuole riscattarsi.

Vi lascio alla lettura della prima tra le interviste fatte ai cittadini titesi che pubblicherò in seguito.

(Si sono lasciati il più possibile invariati i modi di esprimersi e il “linguaggio” parlato usato dagli intervistati).

Intervista a LAURENZANA NICOLA (96 anni, parroco); a. 2015

Cosa serba la sua memoria del drammatico 23 novembre 1980?

Un triste ricordo di paura, di distruzione, di smarrimento e di trasloco forzato per tanta gente afflitta dai danni. Furono novanta secondi trascorsi tra la vita e la morte e un “fuggi fuggi” generale. Ognuno cercò riparo presso parenti o all’aperto.

Ponendo la suddetta data come spartiacque tra il “prima” e il “dopo”, secondo lei cosa è cambiato a Tito?

Il “prima” e il “dopo” hanno segnato la storia di tutte le popolazioni interessate dal sisma. Non è cambiato molto. La gente ha affrontato con energia e speranza la ricostruzione, ma ha comunque poca coscienza dei suoi limiti. Tito e i suoi abitanti non devono essere svegliati dal terremoto. Hanno bisogno di nuovi amministratori e di buoni parroci alla guida della vita comunitaria. Ma gli artefici sono gli stessi abitanti che peccano di incostanza, di pigrizia e di poca solidarietà. Prevale, invece, il disinteresse e spesso l’egoismo.

Attualmente, come le sembra la situazione a Tito a 35 anni dal terremoto, sia dal punto di vista dell’aspetto urbanistico della città, sia da quello di una ricostruzione sociale?

Sono passati trentacinque anni e la ricostruzione edilizia è terminata da tempo. Oggi il paese per il 40% vive in abitazioni più sicure e moderne ma la ricostruzione sociale non è cambiata di molto. La gente si gode tranquillamente un benessere che è piovuto dall’alto.

Nello specifico, rispetto al 1980, oggi quali sono le condizioni del centro storico della città, la zona più colpita dal sisma?

Il centro storico e la parte nord del paese furono le zone più colpite. L’aspetto attuale è senz’altro più confortevole e più armonico.

La ricostruzione della Chiesa Madre sembra essere una grande delusione per la comunità titese. Perché e cosa si poteva fare di più?

La chiesa madre è risorta ma con altro criterio architettonico e non richiama per nulla l’aspetto esterno e interno di una volta e molti provano la nostalgia di un edificio a tre navate con campanile in pietra e campane squillanti.

Fonte immagine: Michele Luongo

A proposito di Chiara D'Auria

Nata e cresciuta in Basilicata, si laurea in Filologia Moderna presso l’Università Federico II di Napoli. Scrive per abbattere barriere e scoperchiare un universo sottopelle abitato da anime e microcosmi contrastanti: dal borgo lucano scavato nella roccia di una montagna avvolta nel silenzio alle viuzze partenopee strette e caotiche, dove s'intravede il mare. Scrive per respirare a pieni polmoni.

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