Ipazia, la filosofa d’Alessandria d’Egitto
Alessandria d’Egitto, prima metà del V sec. d.C.: fulcro della sapienza del mondo antico, principale centro neoplatonico – insieme ad Atene – in grado di garantire la continuità degli antichi riti, oltre che teatro di fanatismi ed intolleranze sistematiche e reciproche.
In un rissoso clima di lotte religiose fra ebrei, cristiani e pagani aderenti al culto di Serapide, brilla la figura di Ipazia, «Figlia del filosofo Teone, che ottenne tali successi nella letteratura e nella scienza da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo», come afferma Socrate Scolastico, teologo e storico della Chiesa dell’Impero Romano d’Oriente.
Ipazia fu istruita dal padre nella matematica e, come sostiene Filostorgio, storico della Chiesa, «Divenne molto migliore del maestro, particolarmente nell’astronomia». Pur celebrata dal mondo della cultura a lei contemporaneo, i suoi scritti non ci sono giunti, ad eccezione dei titoli di tre opere.
I progressi sulle conoscenze ereditate fino ad allora sono rivendicate da Sinesio, il più fedele e famoso degli studenti di Ipazia, poi convertitosi al Cristianesimo e fatto vescovo di Cirene, il quale riferisce della costruzione di un astrolabio «concepito sulla base di quanto mi insegnò la mia veneratissima maestra».
Il filosofo bizantino Damascio aggiunge: «Ella non si accontentò del sapere che viene dalle scienze matematiche e, non senza altezza d’animo, si dedicò anche alle altre scienze filosofiche». Un altro elemento, sottolineato dal lessico bizantino di Suida, è il pubblico insegnamento da lei esercitato, la cui audacia sembra quasi voluta, come un gesto di sfida: «Così la donna, indossando il mantello dei filosofi nel percorrere le strade in mezzo alla città, era solita spiegare pubblicamente, a coloro che desiderassero ascoltare, Platone o Aristotele o qualunque altro dei filosofi. Giunta al colmo della virtù pratica riguardo all’insegnamento, diventata anche giusta e saggia, rimaneva vergine, pur essendo così grandemente bella ed avvenente».
Il contesto storico dell’insegnamento di Ipazia
Nell’ultimo decennio del IV secolo ad Alessandria, a seguito dell’emanazione dei decreti teodosiani, sono demoliti i templi dell’antica religione, in conformità alla volontà di distruzione di una cultura alla quale anche Ipazia appartiene.
Nel 391 il patriarca cristiano di Alessandria, Teofilo, assedia il Serapeion, tempio consacrato a Serapide e biblioteca minore di Alessandria, a capo di una folla inferocita ed eccitata dal fanatismo religioso nell’ambito del confronto tra la comunità cristiana di Alessandria e i non cristiani. Purtroppo l’arroganza dottrinale del Cristianesimo delle origini produsse un sistema totalmente oppressivo e liberticida sul piano pratico, polverizzando tracce notevoli della sapienza antica e rendendo un delitto passibile di morte il continuare a seguire la religione dei padri.
Il clima sociale di Alessandria d’Egitto era, dunque, a cavallo tra IV e V secolo, molto instabile: la comunità cristiana era la più forte e teneva a far valere questo suo potere. Cirillo rappresentava il massimo potere ecclesiastico, mentre Ipazia era il fulcro della cultura, occupando la prestigiosa cattedra di filosofia; ma il vescovo cristiano doveva detenere il monopolio della parrhesia, la libertà di parola e di azione.
Una martire del libero pensiero
La fine di Ipazia fu terribile: nel marzo del 415 un gruppo di fanatici cristiani sorprese la filosofa di ritorno a casa, la tirò giù dalla lettiga, la trascinò in una chiesa e la uccise brutalmente, scorticandola – secondo altre fonti utilizzando ostrakois, letteralmente ‘conchiglie’, ma il termine si riferiva anche a frammenti di ceramica e terracotta – e bruciandone i resti; annota Socrate Scolastico: «Tale fatto comportò una non piccola ignominia sia a Cirillo sia alla Chiesa alessandrina».
L’inchiesta per l’uccisione di Ipazia si risolse con un nulla di fatto: l’imperatore, al tempo Teodosio II, valutata la vicenda nel suo intero complesso fu favorevole al vescovo Cirillo; ma il filosofo Damascio, nella sua Vita di Isidoro, scritta cento anni dopo i fatti, individuava nell’invidia di Cirillo – in seguito dichiarato Santo e Dottore della Chiesa, commemorato il 27 giugno – per l’autorevolezza di Ipazia, donna, colta, intelligente, esponente coerente e coraggiosa del libero pensiero, la ragione del linciaggio che sarebbe stato da lui stesso organizzato e ordinato.
«Loro vogliono tenerci in casa. Loro vogliono il campo libero. Niente. Niente testimoni. Strano Dio che ha paura delle parole. Che odia i libri. Strano Dio davvero. Ma è il Dio che loro vogliono dipingere quello che fa paura. La proiezione delle loro paure. Non è Dio. Perché Dio o gli dèi li puoi chiamare in mille modi, ma se sono davvero lassù, dietro le stelle, e sono loro che regolano tutto, perché dovrebbero avere paura? E di cosa? Di noi? La paura e la violenza appartengono all’uomo, a Dio, se c’è, appartiene l’amore» (M. Vincenzi, Il sogno di Ipazia).
[L’immagine di copertina è tratta da lfmagazine]