Viaggio al museo POLIN di Varsavia: mille anni di memoria e l’eco assordante del silenzio

Uscire dal Museo POLIN è come emergere da un’altra dimensione. Una dimensione sospesa, intrisa di memoria, dolore, luce e oscurità. Le porte automatiche si richiudono alle tue spalle, e mentre la città continua a respirare, dentro di te qualcosa si è incrinato. Qualcosa che non torna più com’era. Forse è questo che fa il POLIN: ti attraversa, ti cambia. Non racconta soltanto la storia degli ebrei in Polonia, la incarna. Ti costringe a guardare, a ricordare, a non voltarti. Mille anni di storia condensati in un museo vivo, interattivo, simbolico. Mille anni in cui ebrei e polacchi hanno condiviso terre, città, mercati, lingue, silenzi e persecuzioni. Le installazioni multimediali non sono soltanto didascalie: sono frammenti di vite interrotte, schegge di identità spezzate. Parlano attraverso oggetti, fotografie, scritte sui muri, lettere, piatti, valigie, oggetti che hanno un nome, una storia, una voce che oggi non può più parlare se non attraverso noi.

Il mio ingresso è stato un passaggio mistico. Davanti a me si apriva un corridoio ondulato di legno, evocazione delle acque del Mar Rosso, mito fondante dell’identità ebraica. Attraversarlo non era solo un atto simbolico, ma quasi una preparazione spirituale: un battesimo di memoria. Poco dopo, la luce, i colori, le voci del passato iniziano a raccontare. Le strade delle città ebraiche, la sinagoga ricostruita di Gwoździec, i canti, le lingue mescolate, le feste, i commerci, le voci della comunità sefardita e ashkenazita, le tensioni e le armonie. E poi, la discesa nell’abisso. Le pareti si restringono. La luce si abbassa. Si scende, fisicamente e metaforicamente Inizia la notte della storia.

Davanti a me, la ricostruzione delle facciate del Ghetto di Varsavia, un luogo che fu abitato da oltre 400.000 persone. Percorro quel passaggio stretto, oppressivo, nel quale ogni passo risuona come un’eco sorda. Mi sento osservata da occhi invisibili, come se le mura trattenessero i respiri di chi lì ha vissuto, sofferto, resistito. E poi la storia accelera: 1940, creazione del Ghetto. E così si continua con la fame, le epidemie. Il 1942 è si apre una finestra sulla deportazione. “L’Umschlagplatz” e sembra di percepire vagoni piombati diretti a Treblinka… e poi la storia continua, fino ad arrivare alla rivolta.

Il 19 aprile 1943, giorno di Pasqua cristiana e della Pasqua ebraica, comincia l’insurrezione del Ghetto di Varsavia, che non è stata un atto strategico, ma un ultimo grido di disperata dignità. Giovani, ragazzi, uomini e donne armati di poche pistole, qualche granata artigianale, una manciata di molotov, combatterono fino all’ultimo contro un esercito professionista, contro la macchina perfetta dell’orrore. Le SS incendiarono interi isolati per stanarli. I combattenti scesero nei canali fognari, ma uno a uno furono uccisi o catturati. Quasi nessuno sopravvisse. Alla fine della rivolta, il Ghetto non esisteva più. Restarono solo macerie, fumo e corpi.

Quelle immagini, al POLIN, non sono fotografie, sono ferite ancora aperte. Sotto il museo, archeologi hanno ritrovato oggetti sepolti: chiavi, bicchieri, bottoni, bambole, resti di lettere. Oggetti di chi non è tornato. Oggetti semplici, domestici, quotidiani. Oggetti che gridano. E tra quegli oggetti, il volto dei bambini. Bambini in fila, bambini con il cappotto troppo grande, bambini che si tengono per mano, condotti verso la morte. È qui che il cuore si spezza, che la memoria non basta. È qui che penso alle parole di Primo Levi, e la sua voce rinasce nella mia mente: “Considerate se questo è un uomo…”. In quel momento comprendo pienamente cosa significava per lui la parola “abiezione”: il degrado dell’uomo, la sua perdita di sé. La freddezza razionale con cui un popolo organizzò lo sterminio di un altro, la burocrazia della morte, la sua precisione. Poi viene naturale pensare alle liste, agli elenchi, i trasporti, le camere a gas, le fosse comuni. Infatti, il Museo di POLIN ha questo potere: il potere di farti vivere tutte le scene.

Dalla distruzione del Ghetto, gli ebrei superstiti furono deportati verso Treblinka, Majdanek, ma anche verso Auschwitz. La connessione tra Varsavia e Cracovia è molto più che geografica: è simbolica. I treni partivano da Varsavia e giungevano ad Auschwitz, Birkenau, Ravensbrück. Lì, altri volti, altri bambini, altri pianti, il dolore si ramifica. I resti di Auschwitz sono ceneri che ancora galleggiano nei venti dell’Europa. I documenti conservati parlano di decine di migliaia di ebrei varsaviani condotti nei campi. Di loro restano spesso solo i numeri tatuati e oggetti dispersi, a volte restituiti dal fango, dal gelo, dalla terra.

Al POLIN la storia si intreccia con le voci. Tra queste, quella di Batsheva Dagan. Una ragazza del Ghetto di Radom, poi clandestina, poi prigioniera, poi ad Auschwitz. Il suo numero era 45554. Ma non fu solo numero. Fu mente, cuore, forza. Dopo la guerra si trasferì in Israele, dove creò un metodo psico-pedagogico per insegnare la Shoà ai bambini, senza spaventarli, ma rendendoli custodi della memoria. Morì nel gennaio 2024. Eppure la sua presenza si avverte nelle stanze del POLIN. È una carezza nel buio.

Anche Roman Polanski era solo un bambino quando fu rinchiuso nel Ghetto di Varsavia. Vide sua madre deportata e mai più tornata. Fu bersaglio dei soldati che gli sparavano intorno “per divertimento”. La sua infanzia è stata fame, paura, morte. Il suo cinema ha cercato, in mille forme, di dare un volto a quell’orrore. Ne Il Pianista, tratto dalla vera storia di Władysław Szpilman, c’è il dolore silenzioso di chi sopravvive alla distruzione di un mondo. C’è la stessa Varsavia che oggi, ricostruita, nasconde sotto i palazzi moderni i vuoti lasciati da migliaia di vite perdute.

Quando esco dal museo, cammino a lungo nel quartiere di Muranów. Lì sorgeva il Ghetto. Le strade sono le stesse, ma non c’è più nulla, o forse c’è tutto. Sento che l’aria è diversa. Non si riesce a ignorare, dimenticare. Da quando sono uscita dal POLIN, ho il pianto facile. La tristezza mi si è incollata addosso, ma non è solo dolore. È anche consapevolezza e responsabilità. Mi chiedo come sia possibile che l’umanità non abbia imparato. Come sia possibile che l’odio torni. Che la paura dell’altro, del diverso, sia ancora un’arma. Mi chiedo come possiamo restare umani, senza la memoria. Come possiamo educare, se non raccontiamo. Per questo i musei come il POLIN sono fondamentali. Per questo dobbiamo entrare, ascoltare, piangere, uscire, e tornare. Perché ogni generazione ha bisogno di conoscere. I bambini uccisi non possono parlare, ma noi possiamo. Infatti, la memoria non è un peso, è un dovere.

Primo Levi scriveva: “Meditate che questo è stato”. E se lui ci ha affidato le sue parole, oggi è il nostro turno, dobbiamo raccontare, scolpire nel cuore quei volti, quei nomi, quelle voci. Il Museo POLIN non è solo un luogo, è un testimone, una coscienza. È un grido che attraversa il tempo, ed è impossibile uscirne indenni. Credo sia giusto così, perché scrivere era resistere.

Nel cuore del buio, quando ogni parola era vietata, ogni pensiero pericoloso, ogni identità condannata, molti ebrei, rinchiusi nei ghetti, nei campi o nascosti sotto false identità, trovarono nella scrittura clandestina uno dei pochi strumenti rimasti per affermare la propria umanità. La stampa clandestina ebraica, spesso improvvisata con mezzi rudimentali, era una forma di resistenza tanto potente quanto le armi. Non sparava proiettili, ma faceva breccia nei cuori, negli spiriti ancora capaci di sentire, nonostante tutto. Nel Ghetto di Varsavia, così come in quello di Łódź, di Vilnius, di Białystok, nacquero giornali segreti, fogli ciclostilati, pagine dattiloscritte a mano e poi passate di mano in mano, di casa in casa. Una delle esperienze più straordinarie e commoventi fu quella degli Oyneg Shabes, il gruppo guidato dallo storico Emanuel Ringelblum, che raccolse e nascose nei sotterranei del ghetto di Varsavia centinaia di documenti, testimonianze, saggi, diari, disegni di bambini, perfino scontrini e biglietti. Tutto ciò che raccontava il quotidiano sotto l’assedio. Scrivevano con febbre, con urgenza, con terrore. Sapevano che la loro fine era vicina, ma volevano, dovevano lasciare traccia. Scrivevano per chi sarebbe venuto dopo, per chi avrebbe potuto sapere. C’è qualcosa di tragicamente nobile in quei gesti: un uomo affamato, malato, braccato, che trova la forza di appuntare su un pezzo di carta ciò che ha visto, ciò che ha sentito, ciò che teme. Non scrive solo per se stesso, scrive per tutti, perché il silenzio non abbia l’ultima parola.

La parola, in quei giorni, era spesso tutto ciò che restava, e anche se parlare era impossibile, anche se il fiato si spezzava per la fame e la paura, si scriveva. Di notte, di nascosto, nei rifugi, tra una perquisizione e l’altra, sui muri, sotto le assi, tra le pieghe delle cuciture. Si scriveva perché non si poteva più piangere. Scrivere significava esorcizzare il dolore, la paura, rimettere ordine nel caos; significava trattenere i nomi, i volti, le date che il fuoco voleva cancellare. Si scriveva per sopravvivere nella memoria.  Scrivere, per molti, fu un atto di fede umana. Quella fede che porta a credere che se anche tutto fosse andato perduto, qualcuno un giorno avrebbe letto e ricordato.

Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, raccolse in Se questo è un uomo il peso di quell’eredità. Non fu un gesto letterario, fu una necessità. Scrivere per lui non fu solo raccontare: fu espellere il veleno. Riconnettere l’anima al corpo, uscire dalla condizione di “verme vuoto di anima”, come scrive con dolore straziante. Era il tentativo disperato e lucido di non soccombere al nulla, di restituire dignità alla propria esistenza e a quella di chi non aveva avuto voce.

“Oh poter piangere!”, esclama in una pagina. E in quelle parole risuona l’intera tragedia della Shoà. Il pianto negato, il lutto rubato, l’umanità cancellata. Eppure, la scrittura fu anche quel pianto. Fu la lacrima che si poté gettare sulla carta, quando le guance erano ormai asciutte, la carezza data con l’inchiostro a chi non c’era più. Il dolore, se non esce, marcisce. E quei fogli ritrovati sotto terra, dopo la guerra, sono ferite ancora aperte, ma anche segni di guarigione. Sono la prova che anche nel cuore dell’abisso, l’uomo ha cercato di restare uomo, di affermare la propria dignità, con un gesto semplice e immenso: mettere nero su bianco la verità.

La stampa clandestina fu il battito cardiaco di una comunità che non voleva essere spenta. Ogni parola era un grido, ogni frase, una resistenza, ogni pagina, un monumento. E oggi tocca a noi continuare a leggere, a scrivere, a tramandare, perché chi ha scritto nel buio lo ha fatto per noi.

Fonte: esperienza propria

Libro Primo Levi Se questo è un uomo; Giulio Einaudi Editore; Torino; 2014

(Di Yuleisy Cruz Lezcano)

Di Wojciech Kryński – Museum of the History of Polish Jews, CC BY-SA 3.0 pl, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=36398654

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