Kok-boru: il gioco a cavallo più estremo dell’Asia Centrale

Kok-boru: il gioco a cavallo più estremo dell’Asia Centrale

Un vasto campo polveroso, cavalli lanciati al galoppo, urla e applausi dalla folla, e al centro dell’azione…una carcassa di capra. Qualcuno potrebbe pensare alla scena di un film d’azione o ad un sogno febbrile, ma si tratta solo del cuore pulsante del kok-boru, lo sport nazionale del Kirghizistan e una delle competizioni più spettacolari e antiche dell’intera Asia Centrale. È infatti praticato anche in Kazakistan, Tagikistan e Afghanistan, dove è conosciuto anche con nomi diversi.

A vederlo per la prima volta, il kok-boru sembra un incrocio tra il rugby, il polo e una battaglia medievale. Per le popolazioni delle steppe e per chi lo pratica, si tratta di più di un semplice sport. È infatti anche un rituale di forza, abilità e testimonianza di spirito comunitario: una tradizione antichissima ereditata dai tempi in cui la sopravvivenza delle tribù nomadi dipendeva dalla simbiosi tra uomo e cavallo, che è l’animale simbolo di questa parte di mondo poco raccontata in Occidente.

Quando il gioco era addestramento alla guerra

L’origine del kok-boru è sfumata nel corso dei secoli, probabilmente è nato come addestramento per i guerrieri nomadi. Nelle steppe kirghise e kazake, infatti, imparare a manovrare e combattere a cavallo era questione di vita o di morte. Di lì passava la sopravvivenza della comunità per almeno quattro motivi.

Innanzitutto, nelle società nomadi dell’Asia Centrale, il cavallo era a tutti gli effetti l’asse portante della vita economica e militare e non rappresentava soltanto un mezzo di trasporto qualunque. Le steppe kirghise e kazake sono spazi aperti, senza montagne o foreste fitte a fare da barriera o da confini naturali, come in Europa continentale. Questo significa che i confini erano difficili da difendere e le incursioni da parte di tribù rivali potevano avvenire in qualsiasi momento. Un buon cavaliere poteva quindi reagire rapidamente, inseguire un nemico o difendere il bestiame qualora ce ne fosse stato bisogno. Ecco perché il cavallo diventava centrale in un’ottica difensiva e guerrigliera.

Inoltre, la caccia agli animali selvatici (inclusi lupi e saighe) richiedeva velocità. Intere comunità rischiavano carestie se non possedevano cavalli addestrati. In più, le popolazioni delle steppe erano, come ben noto, originariamente nomadi: questo significava spostarsi periodicamente per trovare pascoli migliori. Sarebbe stato quindi impossibile muovere yurte (tende), greggi e beni personali senza cavalli al proprio seguito.

Cavallo kirghiso (Foto di Firespeaker)

La capacità di manovrare a cavallo, inoltre, specialmente in situazioni di combattimento o durante le gare rituali come il kok-boru, dava prestigio a chi la possedeva. I migliori cavalieri erano rispettati e spesso diventavano leader militari o figure di spicco nella comunità, un po’ come delle celebrità dell’epoca. Ecco che questo sport, il kok-boru, diventava un addestramento completo, capace di forgiare guerrieri pronti a reagire alle sfide quotidiane della vita nomade.

Il “pallone” era una carcassa di capra, che era considerata simbolo di ricchezza, oltre ad essere fonte di cibo. Si trattava del mezzo perfetto per temprare i muscoli e l’agilità, essendo pesante e difficile da afferrare. Anche il nome stesso di questo gioco racconta una storia interessante: kok-boru, infatti, significa “lupo grigio” in kirghiso. Il nome dovrebbe quindi evocare la caccia ai predatori che minacciavano il bestiame. In alcune versioni delle leggende popolari, il gioco nacque proprio imitando l’inseguimento di un lupo a cavallo.

Kok-boru: come si gioca oggi

Le regole del kok-boru variano da Paese a Paese, ma la struttura è ovviamente simile. Ci sono due squadre di cavallerizzi che si sfidano (spesso 8-12 per lato), una carcassa di capra (oggi in contesti ufficiali può essere sostituita da un sacco di pelle riempito di sabbia) del peso di circa 30-40 kg e un campo di gioco aperto, che può essere lungo anche fino a 200 metri. L’obiettivo è afferrare la carcassa e “fare gol” depositandola in un grande cerchio, detto tai kazan (“calderone”). Questo calderone è situato alle due estremità opposte del campo, proprio come le porte in un campo da calcio o i canestri in uno da basket.

Non si usano mazze, racchette, bastoni, ma soltanto le mani e la destrezza in sella. I cavalli devono essere rapidi, ma anche resistenti ai contatti, visto che non mancano scontri fisici e strattoni. Nelle versioni storiche non c’era limite di tempo: una partita poteva durare ore, fino all’esaurimento fisico dei cavalli.

Kok-boru
Schema del campo da kok-boru con misure ufficiali, posizione dei tay kazan e confronto in scala con un campo da calcio (Foto di Reoner)

Oltre il Kirghizistan: il buzkashi e le varianti regionali

Il kok-boru non è praticato solo in Kirghizistan, ma anche in altre nazioni dell’Asia Centrale, dove è conosciuto con nomi diversi. In Afghanistan, Tagikistan e Uzbekistan esiste una variante nota come buzkashi, che è riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio culturale immateriale.

In Kazakistan, invece, è conosciuto come kokpar, con regole leggermente diverse e una maggiore enfasi sulla velocità rispetto alla fisicità. Al di là delle differenze, però, tutte queste varianti condividono la stessa anima, ovvero quella di celebrare lo spirito di squadra, la forza, il coraggio, la maestria in sella, la tradizione. Di seguito, un video che mostra uno spezzone di gara:

Il kok-boru nel nostro secolo

In Kirghizistan il kok-boru è talmente identitario che è apparso anche su francobolli e banconote commemorative. Oggi il kok-boru è anche uno dei momenti più attesi del World Nomad Games, un evento biennale che riunisce in Kirghizistan (ma negli ultimi anni anche in altre nazioni dell’Asia Centrale) atleti da tutto il mondo per gareggiare in discipline tradizionali. Le arene si riempiono di turisti e appassionati e questo sport diventa così un’attrattiva internazionale, vetrina dell’identità nazionale, uscendo dal contesto locale dei villaggi rurali o degli accampamenti dei nomadi nelle steppe (dove in ogni caso ancora oggi è parte delle celebrazioni per matrimoni o festività).

Per i kirghisi e le altre popolazioni della regione, questo gioco richiama quindi i valori della vita nomade e li porta nel presente. Il problema, però, resta adattare questa tradizione ad un pubblico globale e alle esigenze moderne, compresa la crescente attenzione per il benessere e i diritti degli animali.

Fonte immagini: Wikimedia Commons (Fotografo immagine di copertina: Petr Sanzhiev)

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