Max Bertolani, ex giocatore della Nazionale di football americano e vicecampione d’Europa negli anni ’90, ha saputo costruire una carriera poliedrica che unisce sport, spettacolo e formazione. Tra i protagonisti della crescita del football in Italia, ha fondato accademie e settori giovanili dedicati anche al flag football, portando avanti una visione che coniuga disciplina, benessere e resilienza. Parallelamente ha avuto un percorso televisivo intenso, iniziato nel 2002 come presenza fissa a La sai l’ultima? su Canale 5.
L’anno successivo diventa tronista a Uomini e Donne e ospite fisso a Beato tra le donne su Rai Uno, per poi approdare in sit-com, programmi di intrattenimento e rubriche sportive, tra cui Finché c’è ditta c’è speranza (2003), Sport caffè (2004), On The Road e Modeland (2005), Touchdown & SportLife (2006–2008), oltre a partecipazioni in fiction come Vivere, Piloti e Così fan tutte.
Negli anni successivi, Max Bertolani è stato volto di trasmissioni come L’Italia sul Due, Il Bivio, TantaSalute con la rubrica In forma con Max, e attore nei film Butterfly Zone e Backward, fino a comparire anche in Camera Café. Nel 2012 partecipa alla nona edizione de L’Isola dei famosi, dove arriva quarto, e l’anno dopo viene scelto come tutor sportivo a Detto Fatto.
Oggi vive a Morlupo, dove ha trovato un nuovo equilibrio personale e porta avanti l’attività di coach attraverso programmi innovativi come il “Warriors Cross”, continuando a trasmettere i valori dello sport e della resilienza anche al di fuori del campo.
Intervista a Max Bertolani
Max, dalla nazionale al coaching: qual è stata la tua sfida più grande nel passare da giocatore professionista a fondatore di una scuola di football?
Sono sfide diametralmente opposte: quando si è giocatori scatta una competizione contro altri grandissimi atleti, contro altre importanti realtà sportive, per arrivare al raggiungimento di un obiettivo che può essere il campionato, la Coppa Campioni o la sfida delle Nazionali per diventare campioni a livello europeo. Invece, l’essere allenatore è una sfida diversa, dove bisogna mettere da parte l’essere giocatore e far scattare la passione, cioè la passione di trasmettere la propria esperienza ai giovani o a tutte quelle persone che desiderano avvicinarsi a uno sport che hai amato per oltre quarant’anni. Non è facile essere allenatori: lo devi avere dentro. Ci sono stati grandissimi atleti che non sono stati in grado di diventarlo; è una dote innata che ognuno può avere o meno. Io, per fortuna, ho questa predisposizione. Mi piace trasmettere il mio amore e la mia passione verso lo sport a chi mi dà fiducia, e creo una connessione fantastica con tutti i miei atleti, con i quali ottengo risultati straordinari. Mi danno gratificazioni immense e, grazie a loro, posso continuare a vivere anche la mia esperienza da giocatore: attraverso loro continuo a competere.
Quando ero solamente atleta dovevo pensare solo a me stesso, quindi alla mia performance, alla resilienza in campo, all’essere sempre all’altezza della situazione per non deludere l’allenatore. Era quindi un discorso individuale. Al contrario, quando si diventa allenatori bisogna prendersi cura di un collettivo e far sì che cresca in modo uniforme, tutti insieme, senza trascurare nessuno. Sono due ruoli diversi tra loro, ma far crescere un collettivo rappresenta la sfida più bella, perché mi permette di portare avanti la mia esperienza e di metterla al servizio degli altri. In questo senso, dal punto di vista sportivo, “continuo a vivere attraverso loro”, e vedo i risultati della mia passione per lo sport.
Hai parlato spesso dell’importanza di nutrirsi in modo sano «pur senza essere atleti professionisti». Come applichi questa filosofia nel tuo programma di allenamento “Academy Cross” della scuola Warriors Cross?
Secondo me l’alimentazione è l’aspetto più importante, sia per chi è atleta che per chi non lo è. Noi siamo quello che mangiamo. Questo lo sottolineo sempre a tutti i miei atleti. Se tutti riuscissero a seguire uno stile alimentare corretto, indipendentemente dal praticare sport, ne avrebbero grandi benefici. Ad ogni modo, li indirizzo sempre a figure professionali come i nutrizionisti. Chi si rivolge a Max Bertolani sa di scegliere di amarsi sotto ogni aspetto, e io mi assicuro che intraprenda i percorsi migliori.
Max, durante L’Isola dei famosi hai affrontato sfide estreme e perso 23 chili. Cosa ti ha lasciato quell’esperienza sul piano personale e professionale?
È stata l’esperienza professionale più bella della mia vita. Oltre a consacrarmi nel ruolo di personaggio pubblico, mi ha fatto capire che, anche di fronte a prove di difficoltà estrema e privazioni, il mio carattere e la mia formazione sportiva mi hanno permesso di superarle tutte.
Hai scelto di trasferirti da Milano a Morlupo: come ha influito questo cambiamento sulla tua serenità interiore e sulle tue prospettive professionali?
Il periodo del Covid e la morte di mio papà, che viveva a Morlupo con mia mamma, sono stati determinanti per il mio spostamento da Milano a Morlupo. Probabilmente è stato un segno del destino: qui ho trovato tanti nuovi amici, tanta umanità e una comunità che crede in me e che, con grande affetto, mi è sempre vicina e mi protegge. Morlupo è il mio paradiso: ho ritrovato equilibrio, valori e serenità. Grazie all’affetto e alla fiducia di amici speciali, sono riuscito a far ripartire il progetto sportivo della mia Academy. In questo momento della mia vita sono felice e innamorato di Morlupo: credo che questo spostamento sia arrivato nel momento giusto. L’Academy Morlupo è la mia famiglia, trasferirmi qui è stata una vera e propria rinascita.
Inoltre, a Morlupo ho potuto realizzare un mio grande sogno, ossia quello di potermi prendere un cucciolo di Labrador Retriever di cui sono felicemente innamorato, Rocky, il mio bimbo peloso. Mi ha aiutato tantissimo dopo la morte della mia mamma.
Sei stato tra i primi a portare il football americano in Italia e oggi ti dedichi attivamente alla promozione del flag football e del settore giovanile: quali sono, secondo te, le principali opportunità e ostacoli per il futuro di questo sport in Italia?
Desidero precisare una cosa: il football americano in Italia lo hanno portato due grandi uomini, Giovanni Colombo e Bruno Beneck. Io ho avuto la fortuna, nel 1981, di innamorarmi di questa disciplina e di incontrare tre dirigenti delle squadre più importanti lombarde; da lì è iniziata la mia fantastica avventura sportiva. Diciamo che, grazie alla mia visibilità televisiva, sono riuscito in ogni situazione a promuoverlo, cercando di aiutare la federazione e tutto il movimento sportivo.
Secondo me, una grande opportunità per il nostro sport saranno i prossimi Giochi Olimpici, dove è stato inserito il flag football, versione del football americano senza contatto fisico. Se gestita bene dalla federazione, questa occasione potrà far crescere ulteriormente il nostro sport. A Morlupo, insieme al mio fraterno amico Paolo Pacifici, stiamo facendo nascere l’Academy Morlupo di flag football, per dare l’opportunità a tanti giovani di vivere questo meraviglioso sport.
Max, hai partecipato a diversi programmi televisivi, dall’intrattenimento ai reality. In che modo l’esperienza sul piccolo schermo ha influenzato la tua vita personale e la percezione che il pubblico ha di te come sportivo e coach?
Sicuramente la televisione e il cinema mi hanno aiutato tantissimo. Mi hanno permesso di farmi conoscere da tutti per quello che sono, sia come uomo che come sportivo. Ho ricevuto moltissime manifestazioni di affetto da persone di ogni età, dai più piccoli ai più grandi. Ciò che mi piace è che questo ruolo comporta il dovere, prima di tutto, di essere sempre un buon esempio per tutti.
Max Bertolani è un nome sinonimo di passione, impegno, correttezza e propensione all’aiuto del prossimo, sia nel campo dello spettacolo che in quello sportivo.
Fonte immagini: Fornite dall’atleta e personaggio pubblico Max Bertolani