Il 30 ottobre alle ore 21:00 il Teatro Bellini di Napoli ha aperto il suo sipario per lo spettacolo intitolato “Nuovo Teatro Ambarabà“, di cui è interprete Gennaro Scarpato, con la regia di Arturo Brachetti e le musiche di Nicola Piovani. Lo spettacolo si apre sul paradosso dell’attesa. Il sipario è abbassato ma il silenzio è tradito da un paesaggio sonoro di voci da stazione come: «Attenzione il treno 1994 ad altissima velocità, è partito, è partito». È proprio in questo brusio, simbolo dello scorrere della vita, che inizia un soliloquio di ben 90 minuti, con un mix di ironia e introspezione che fornisce al teatro la sua funzione più alta: quella di un faro che illumina la nostra nebbia quotidiana. Gennaro Scarpato, dopo ben dieci anni di assenza, viene riportato a Napoli non da un trionfo, ma dal lutto per la scomparsa di Ezio Stellato, proprietario del “Nuovo Teatro Ambarabà”, che qui assume la figura di custode di un’epoca ormai remota. È proprio a partire dal lutto, che rappresenta l’improvvisa caduta dell’ultima quinta, che il palcoscenico si trasforma in un anfiteatro senza muri. “Il Nuovo Teatro Ambarabà” è quindi la performance di un uomo che, rimasto solo al centro di questo anello di cenere, è costretto a ridefinire i confini dell’esistenza.
Gli oggetti fantasma e la ricerca della forma
Il palco si trasforma in un teatro della memoria dove ogni oggetto recuperato è un frammento di identità da ricomporre. Sin da subito, il personaggio viene catapultato verso il calore di una relazione passata, un tempo in cui la sua identità era definita da un altro. Il giubbino dell’ex fidanzata è l’unico reperto in grado di resistere alla corrosione del tempo. Non è un indumento, ma la custodia termica di un’illusione. Gennaro Scarpato si lascia avvolgere da una danza tempestosa che lo riporta alla passione. Il giubbino è una sorta di bussola rotta: simbolo di gravità sentimentale che ora lascia una traiettoria solitaria ma più autentica. In seguito, Gennaro Scarpato viene portato nel labirinto dell’eredità paterna. Le lettere e le poesie del padre verso la madre sono il trigger comico dello spettacolo. Non solo sono testimonianze d’amore, ma veri e propri campi minati di equivoci e acrobazie mentali divertenti. Dunque, Gennaro Scarpato affronta ciò con una certa frenesia verbale, svelando come anche il linguaggio più intimo possa essere una fonte inesauribile di malintesi esilaranti. Superata la dimensione relativa all’amore, Scarpato afferra l’oggetto centrale della sua denuncia sociale: la maschera d’asino. Qui, il soliloquio diventa manifesto politico e morale. L’asino non è simbolo di stupidità, ma dell’obbedienza cieca e della sopportazione muta. Il protagonista la rifiuta con veemenza attraverso il suono onomatopeico dell’animale. La denuncia riguarda chi è costretto al ruolo di animale da soma in un’epoca di giganti vuoti. Successivamente, il protagonista si ritrova solo su una sedia gigante.
Non si tratta solo di scenografia ma di una metafora dell’istituzione, della scuola e del conformismo che ci ha insegnato a sentirci piccoli. Gennaro, seduto su quel trono assurdo, sottolinea come i grandi non sappiano far altro che creare dimensioni esagerate (la grande amicizia, il Grande Fratello), dimenticando che il valore non è nelle misure, ma nell’intimità delle cose. Contro questa tirannia dell’iperbole, Gennaro lancia la sua sfida morale: «meglio essere un uomo piccolo che un piccolo uomo».
Dalla finzione alla ricerca di verità

Dopo il confronto con l’asino sociale, il percorso di Scarpato tocca due estremi: il teatro delle marionette e il disegno fatto per Nino Cacace. Il teatro di marionette rappresenta il laboratorio della finzione innocente, l’ultima frontiera del gioco, dove il controllo era ancora possibile. È il dolce ricordo di un tempo in cui si poteva credere di manipolare i fili del destino prima che la vita adulta rivelasse l’assenza di un burattinaio. L’epifania, però, arriva con il disegno d’infanzia, l’errore del passato: disegnare il futuro di Nino Cacace. La frase di Nino è una sorta di deus ex machina della memoria, risuona come un imperativo: «non disegnare il futuro degli altri, ma il tuo». Lo spettatore e il personaggio sono giunti alla chiave di volta, il momento in cui si smette di cercare un senso esterno e si accetta la propria unica traiettoria. Lo spettacolo si chiude con l’augurio di chi ha capito il gioco della vita, quel teatro dove le maschere sono obbligatorie: «a questa vita che è tutta teatro e alla prossima che spero sia tutto un ambarabà».
Un futuro libero dal copione
Il soliloquio di Gennaro Scarpato non è una performance, ma un vero atto di esorcismo necessario. Per 90 minuti, siamo rimasti accanto a lui, nella polvere sacra del Bellini. Quando risuona l’augurio finale, non sentiamo una chiusura, ma il fragore di una porta che si spalanca. “Il Nuovo Teatro Ambarabà” non finisce con il sipario, inizia adesso, nella coscienza di ogni spettatore. Si tratta di una mappa indispensabile per ritrovare la propria, piccola, immensa verità.
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