Occidente di Giuseppe Maria Martino | Recensione

"Occidente" di Giuseppe Maria Martino

La programmazione del Ridotto del Mercadante continua con i tre spettacoli vincitori della prima edizione del Premio Leo de Berardinis Under 35, progetto promosso dal Teatro di Napoli per dare spazio alle compagnie ed agli artisti giovani della Campania. Si inizia con le repliche dal 10 al 14 novembre di Occidente, testo di Dario Postigione, con la regia di Giuseppe Maria Martino ed interpretato da Giampiero De Concilio, Francesca Fedeli, Darioush Forooghi e Rebecca Furfaro. Lo spettacolo è presentato da Collettivo BEstand su produzione del Teatro di Napoli-Teatro Nazionale in collaborazione con Casa del contemporaneo.

L’Occidente coniugato al futuro prossimo

Il sole non esiste più, è ormai un ricordo vago, quasi disturbato. La vita sul pianeta procede all’insegna di algoritmi precisamente inseriti nella quotidianità, in un mondo schiavo di un progresso tecnologico asfissiante. Tutto è diventato meccanico, persino gli esseri umani sembrano essersi robotizzati, conformati ai ritmi serrati di un computer. La scenografia rende bene questo contesto claustrofobico di iperconnessione con una composizione circolare al centro del palcoscenico che ricorda un po’ l’occhio del Grande Fratello orwelliano: è Dira che esegue immediatamente ciò che le viene ordinato e gestisce e monitora ogni notifica, tutto quanto riguarda i suoi inquilini umani fino ad arrivare a controllare le loro menti. Sotto il cielo di cenere di questa ipermodernità si raccontano le storie di tre personaggi, che si muovono a tentoni in un mondo offuscato a cui non rimane niente più di autentico.

Vittorio è un ex poeta diventato uno sceneggiatore di spot e serie tv. Si imbottisce di antidepressivi per dimenticare, tra le altre cose, il suo dramma familiare e ad affibbiarlo come se fosse un vizio mai perso è la pedofilia. Nei suoi rapporti con gigolò minorenni Vittorio ricerca una certa dimensione di purezza, ma l’atto è violento, crudamente ridotto ad un contatto fisico cruento come un tentativo disperatamente vano di vendicarsi della morte della poesia, similitudine della morte dell’umanità.

Sara vaga per giorni, alla ricerca di chi o cosa nessuno lo sa all’inizio. È una terrorista che ha abbandonato sua madre morente per seguire un uomo tedesco con cui condivide idee naziste e reazionarie. Adesso viaggia a lungo per tornare da suo fratello Vittorio, cerca il suo perdono ma in realtà la vera motivazione è il suo bambino che ha lasciato quando era ancora troppo piccolo perché avesse un ricordo di lei. Sara si muove con toni catastrofici, Il suo corpo appare spesso deformato, i ritmi utilizzati nel parlato prolungati: ci appare come un ricordo, una figura inserita in una dimensione onirica nella memoria di Vittorio e di Simone che ancora non sa quale ruolo riconoscerle.

Simone è forse l’unico personaggio ad essere definito rispetto agli altri due, ma anch’egli presenta un’ambiguità latente. Sembra a suo agio in quella cultura super tecnologica, compone musica in freestyle e gioca in diretta streaming, ma un particolare inquietante lo caratterizza: è nato senza mai avere conosciuto né il sole né sua madre. Crede di conservare dei ricordi, ma si dimostrano vaghi, la memoria è labile, un algoritmo che non può funzionare perfettamente. Eppure, Simone dimostra di avere la volontà di recuperare la memoria, quella dimensione del ricordo che in fin dei conti è ciò che ci rende esseri umani capaci di costruire un presente. Sarà l’incontro con la strana figura di Sara, alla quale scopre di essere figlio, a restituirgli qualcosa di concreto, un ricordo che gli permette di affermare alla fine: «Sono vivo».

La nevrosi del contemporaneo

Occidente è un alternarsi di monologhi e dialoghi che dimostrano l’effimero, il vuoto che pare essersi incrostato in ogni aspetto della vita. È un mondo che non appare così lontano dal nostro immaginario, anzi, lo si percepisce come un’inquietante possibilità di un futuro prossimo a noi. La drammaturgia e le scelte di regia abbinate dilatano molto i tempi dello spettacolo con una resa prolissa che lascia lo spettatore confuso riguardo il vero dramma: la tragedia familiare consumata dai tre personaggi o l’avanzamento incessante del progresso che lascia noncurante pezzi lungo la sua scia. La scenografia spoglia richiama sapientemente l’immagine di un futuro distopico, privo di contenuti tangibili, provocando una sensazione di soffocamento in mezzo a tutto quel niente. Gli attori danno prova di una recitazione egregiamente equilibrata tra tecnica e impulsi emotivi, mantenendo la scena per un’ora e mezza senza mai uscire dai personaggi. 

Occidente è una riflessione che procede per metafore crude su una realtà che sta abbandonando il valore della poesia, cioè della verità in un lento dissanguamento che si fa specchio della morte dell’autenticità. Ma la natura del mondo ha la capacità di autosalvaguardarsi e il finale lascia un sapore amaro tra la speranza del nulla assoluto, che significa ricominciare d’accapo, e la negazione di qualsiasi nuovo immaginario.

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A proposito di Francesca Hasson

Francesca Hasson nasce il 26 Marzo 1998 a Napoli. Nel 2017 consegue il diploma di maturità presso il liceo classico statale Adolfo Pansini (NA) e nel 2021 si laurea alla facoltà di Lettere Moderne presso la Federico II (NA). Specializzanda alla facoltà di "Discipline della musica e dello spettacolo. Storia e teoria" sempre presso l'università Federico II a Napoli, nutre una forte passione per l'arte in ogni sua forma, soprattutto per il teatro ed il cinema. Infatti, studia per otto anni alla "Palestra dell'attore" del Teatro Diana e successivamente si diletta in varie esperienze teatrali e comparse su alcuni set importanti. Fin da piccola carta e penna sono i suoi strumenti preferiti per potere parlare al mondo ed osservarlo. L'importanza della cultura è da sempre il suo focus principale: sostiene che la cultura sia ciò che ci salva e che soprattutto l'arte ci ricorda che siamo essere umani.

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