I detenuti e gli ex detenuti del Carcere di Rebibbia sono i protagonisti dello spettacolo teatrale “Rebibbia: la città invisibile”, presentato al Teatro Olimpico. L’ennesima conferma della bontà e della necessità dell’attività teatrale negli istituti penitenziari.
Il Teatro Olimpico, all’interno del ricco programma della Festa del Cinema di Roma, mercoledì 22 ottobre ha visto andare in scena per la prima volta lo spettacolo “Rebibbia: la città invisibile“, realizzato con il contributo di detenuti, ex detenuti e personale della Polizia Penitenziaria del Carcere di Rebibbia. La regia della rappresentazione è di Laura Andreini e Francesca Di Giuseppe, mentre la produzione è opera dell’associazione La Ribalta del Centro Studi “Enrico Maria Salerno” e del Teatro Libero di Rebibbia – Ottava Arte.
Proprio in nome di Ottava Arte, prima della messa in scena, dinanzi a una platea ricca soprattutto di liceali, Fabio Cavalli ci ha tenuto a ringraziare chi ha offerto il proprio patrocinio e supporto a questa operazione, su tutti il Ministero della Cultura, la Regione Lazio e soprattutto il Presidente della Commissione Cultura della Camera Federico Mollicone. Quest’ultimo, alla fine dell’evento, ha preso la parola per ribadire e gettare luce sulla proposta di legge per rendere obbligatorio il teatro in ogni istituto penitenziario. Cavalli ha anche ribadito la bontà di un progetto ormai più che decennale che ha raggiunto il suo apice con “Cesare deve morire“, il docu-drama dei fratelli Taviani premiato a Berlino nel 2012.

Rebibbia: la città invisibile, lo spettacolo
Se la realtà è quella resa ancor più vicina, in tempi recenti, da “Grazie Ragazzi” di Riccardo Milani (remake del francese “Un triomphe“), l’ispirazione di questa rappresentazione è già autoevidente dal suo titolo: si tratta de “Le Città Invisibili“, piccolo ma meraviglioso libro di Italo Calvino. Non è l’unica, però, perché forte è anche la presenza dell’Odissea, nel racconto del lungo viaggio di Ulisse verso la sua Itaca. Il resto lo fanno le storie concrete, quelle dei detenuti, unite nel loro destino ma profondamente diverse, tutte con qualcosa di unico, delineato dai piccoli dettagli che ciascuno sceglie di svelare.
La scenografia è scarna, soltanto un palco buio e cinque leggii, ognuno destinato ai cinque attori sulla scena: Alessandro Marverti, l’unico professionista, Cinzia Silvano, Ispettore Capo della Polizia Penitenziaria (“ci sono dei problemi, ma non c’è pregiudizio e si può convivere e collaborare“, ha detto Fabio Cavalli dal palco), e poi Giacomo Silvano, Juan Dario Bonetti e Marcello Lupo. Sono loro a introdurci prima nel mondo mitico di Ulisse, invitato a perdersi nel suo lungo viaggio prima di tornare a casa, e poi a vari brani del capolavoro calviniano.
Alle letture, su uno schermo alle loro spalle, si alternano le animazioni di Alessandro De Nino e soprattutto le storie di vita di altri detenuti. La città invisibile è Rebibbia, con la sua comunità dimenticata da tutti, ma sono anche quelle da cui i nostri protagonisti sono partiti, e che descrivono con la loro singolare prospettiva. Così alle Isidora, Valdrada, Ottavia, Procopia, Pentesilea che Marco Polo racconta a un ammirato Kublai Khan si alternano Napoli, il suo mare e i suoi quartieri difficili, Ostia e il suo stabile abusivo dell’Ex Colonia Vittorio Emanuele, Centocelle, il Casilino 900, Santa Palomba col suo cancello, Villa Gordiani, Tor Bella Monaca dove “o ti arrestano, o ti arrestano“.
Le parole già scritte e consacrate alla memoria collettiva sono il pretesto per approfondire svariate questioni: dal futuro al rapporto con la religione, la guerra e la povertà, i propri genitori, la paternità, la morte, la solitudine e il senso di comunità. Quella Itaca tanto agognata e poi non del tutto riconosciuta da Ulisse, che da lei “non deve desiderare nulla“, è la libertà, è il mondo fuori, ma è davvero il posto da cui si è partiti?
Il tema del viaggio ritorna anche quando i detenuti parlano delle loro traversate, spesso adolescenziali, verso il centro di Roma. Delle vere e proprie avventure, quasi in avanscoperta verso un mondo lontano e misterioso, quasi sconosciuto. Sono tutti abitanti della stessa città, eppure la periferia sembra un universo a sé stante, chiuso. Una separazione che, come dice Claudio, ti fa sentire fuori luogo anche quando arrivi fisicamente alla meta e hai cercato in tutti i modi di camuffarti. Il viaggio è anche quello di Orhan, arrivato dalla Bosnia e cresciuto, a suo dire felicemente, in un campo rom, o quello di Mirko, che non ha visto niente se non le carceri in cui andava a trovare il padre.
Nonostante la severità degli argomenti, tra i tanti meriti dello spettacolo c’è anche quello di riuscire a strappare con delicatezza più di una risata e a regalare anche meravigliosi momenti di tenerezza, come le scene tra il giovane Gabriele, 22enne, e la sua mamma (presente anche in sala). “Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio“, forse la citazione più significativa dell’opera originale di Calvino, e un punto focale in questa rappresentazione, che restituisce a ognuno dei protagonisti la propria umanità e permette loro di raccontarci i punti cardinali di esistenze che aspettano di tornare alla vita.
Uno spettacolo che guarda al futuro
La messa in scena è stata salutata da una convinta standing ovation dalla platea, entusiasta nel concedere il giusto tributo agli interpreti e alle loro famiglie, alle figure tecniche e istituzionali che hanno reso possibile il tutto. Per chi vorrà, lo spettacolo sarà replicato il 10 marzo 2026 all’Auditorium Parco della Musica di Roma in Sala Petrassi (biglietti disponibili su Ticketone e presso i punti vendita abilitati). Nel frattempo, la speranza congiunta di Federico Mollicone (FDI) e Raffaele Bruno (Movimento 5 Stelle), primi firmatari delle proposte di legge per la promozione e il sostegno delle attività teatrali negli istituti penitenziari, è che possa trattarsi di un traino anche mediatico importante. Perché, come sottolineato dallo stesso Mollicone, il teatro può essere “un ponte di libertà“.

