Il quiet firing è la strategia aziendale di cui poco si parla ma che molti dipendenti vivono. Mentre tutti gli occhi sono puntati sul quiet quitting, esiste un’altra realtà: quando le aziende, anziché licenziare, spingono i lavoratori a dimettersi attraverso sottili esclusioni e manovre strategiche. È fondamentale riconoscere i segnali di questo fenomeno silenzioso che mina il morale e la produttività.
Cos’è il quiet firing
Mentre tutti parlano del quiet quitting, dove il lavoratore decide di ridurre al minimo il proprio coinvolgimento, il quiet firing è la versione aziendale del «farsi la valigia da soli». Si verifica quando l’azienda, anziché licenziare attivamente un dipendente, lo mette in condizioni tali da portarlo alle dimissioni. Insomma, mettere la valigia in mano al lavoratore senza neanche aiutarlo a scendere le scale.
Si tratta di un processo subdolo e silenzioso, in cui il lavoratore viene progressivamente escluso, isolato, privato di opportunità di crescita o messo di proposito in situazioni difficili da gestire.
L’obiettivo implicito è quello di spingerlo a lasciare il posto di lavoro spontaneamente. Spontaneamente, come chi decide «volontariamente» di lasciare una festa noiosa perché nessuno gli parla da due ore.
Quiet quitting e quiet firing: una relazione
Non esistono solo dimissioni volontarie e le dimissioni per giusta causa, quindi. Esattamente come non esiste solo il famoso «ti licenzio», ma anche il «ti lascio lì a marcire fino a quando ti viene voglia di andartene da solo».
A volte il lavoratore viene, di fatto, spinto verso la porta, anche se formalmente nessuno lo licenzia. È un processo che può essere difficile da riconoscere, ma ha effetti devastanti sul morale e sulla produttività. Capire di non essere più i benvenuti ha una ricaduta notevole sulla percezione di sé e del proprio lavoro. In questi termini, il quiet firing può portare al quiet quitting, adottato in risposta alla percezione di non essere competenti, di non essere all’altezza, di non essere più graditi.
Come riconoscere il quiet firing
Neanche il posto fisso garantisce stabilità e serenità e non sempre una dimissione è una scelta vera e propria, ma può essere il risultato di un percorso di esclusione intenzionale e progressiva orchestrato dai piani alti.
Quando una persona, però, sta già affrontando problemi personali, è facile che non si accorga di dinamiche lavorative o segnali sottili come il quiet firing. Il carico emotivo che deriva dalle difficoltà personali può assorbire talmente tanta energia mentale da offuscare la percezione di ciò che accade intorno. Di fronte a pressioni esterne, esclusioni o cambiamenti graduali in ufficio, l’attenzione è talmente concentrata sulla gestione del proprio stress che i segnali di «spinta alla porta» passano inosservati.
È così che affermazioni quali «non mi piace questo lavoro» o «forse non è la mia strada» iniziano a farsi strada nella mente di chi, in realtà, potrebbe essere perfettamente qualificato per quel ruolo. Il problema non è il lavoro in sé, ma il modo in cui viene strutturato per escludere, demotivare e far sembrare un dipendente non adatto. Quando ci si sente ignorati o relegati ai margini, è facile confondere il malessere per una mancanza di passione o competenza, mentre spesso si tratta solo di un ambiente che non valorizza o, peggio, che porta a credere di non essere all’altezza.
Essere attenti a queste dinamiche permette di riconoscerle per tempo e prendere misure che possano tutelare i lavoratori. Mai come in casi simili, consapevolezza e prevenzione giocano un ruolo cruciale.
Quali sono, quindi, le strategie più frequenti messe in campo nel quiet firing?
1.Stessa scrivania, stesso ruolo
La mancanza di crescita professionale è tra i più evidenti segnali di un possibile quiet firing. Quando un lavoratore viene mantenuto nello stesso ruolo per anni, senza prospettive di promozione o di sviluppo, nonostante lo desideri, diventa chiaro che non è più considerato parte integrante del futuro dell’azienda. Questo può avvenire nonostante il dipendente abbia acquisito esperienza e competenze, ma l’azienda non riconosce il suo contributo, impedendogli di avanzare. Perché si sa, meglio mantenere qualcuno stagnante piuttosto che offrirgli una prospettiva. Perché mai far sentire utili e gratificate le persone, in fondo? La stagnazione è madre della frustrazione e il messaggio implicito è che la crescita professionale è possibile solo fuori dall’organizzazione.
2.Esclusione da progetti e iniziative
Quando un dipendente viene progressivamente escluso da progetti importanti o da nuove iniziative aziendali, il messaggio è chiaro: la sua presenza non è più considerata essenziale. Questo può avvenire in maniera graduale, facendolo sentire sempre più invisibile e irrilevante. Perché, talvolta, dare feedback costruttivi è troppo mainstream.
Privare un lavoratore di opportunità per esprimere le proprie capacità e per contribuire alle decisioni strategiche è un modo efficace per minarne la motivazione e spingerlo sempre di più verso i bordi. Invece di un confronto diretto, l’esclusione rappresenta una strategia passiva per indurre il lavoratore a dimettersi.
3.Diminuzione dei carichi di lavoro (o aumento spropositato)
Un altro segnale chiaro del quiet firing è la manipolazione del carico di lavoro. In alcuni casi, i dipendenti vedono il proprio carico di lavoro ridursi drasticamente, ricevendo incarichi sempre più marginali e meno significativi. Questo, non solo influisce sulla loro autostima, ma li porta anche a sentirsi disconnessi dagli obiettivi aziendali e dagli stessi colleghi, che invece avanzano.
Allo stesso modo, esiste il fenomeno opposto: l’aumento spropositato dei compiti. Caricare un dipendente di responsabilità insostenibili senza fornirgli le risorse adeguate a gestirle è un modo per causare stress e frustrazione, spingendolo a mollare la presa. Il motto aziendale allora diventa «sopravvivi se puoi, oppure fai un favore a tutti e dimettiti».
Il punto di vista dell’azienda
Ma cosa spinge un’azienda, un datore di lavoro, a mettere in atto strategie di quiet firing? Le motivazioni possono essere diverse, tra cui il rilevamento di performance del lavoratore non soddisfacenti o la necessità di ridurre il personale e le risorse. Ma perché, in caso di performance non soddisfacenti, non si opta per una comunicazione chiara? Perché, quando si parla di quiet firing, la chiarezza non è propriamente l’obiettivo della strategia. Anziché affrontare un dialogo aperto e costruttivo, molte aziende preferiscono evitare il conflitto, sperando che il lavoratore faccia tutto da sé, inclusa la parte di chi molla la presa. Del resto, quando una persona va via di sua spontanea volontà, si riducono anche le probabilità di ulteriori spese da parte dell’azienda o, se proprio si è ai ferri corti, potenziali cause legali.
Chi è la vittima?
Non sempre il quiet firing colpisce i lavoratori con performance scadenti o atteggiamenti problematici. Al contrario, può coinvolgere anche dipendenti modello: persone altamente competenti e con un bagaglio di esperienza significativo. La domanda, quindi, è: perché mai una risorsa così preziosa viene indirettamente spinta a lasciare l’azienda?
La risposta risiede nel fatto che le competenze, per quanto importanti, non sempre vengono viste come un asset immediato. Un collaboratore valido rappresenta un investimento per l’azienda, ma in alcuni momenti quest’ultima potrebbe non avere le risorse o la volontà di investire ulteriormente. Questo accade spesso quando l’azienda attraversa una fase di riduzione dei costi, riorganizzazione interna, cambiamenti di strategia o, semplicemente, non intende proiettarsi verso una crescita. Anche un dipendente eccellente, con uno stipendio adeguato alle sue capacità, potrebbe essere considerato un «peso» economico in certi contesti.
Il quiet firing, quindi, diventa un modo per ridurre i costi senza licenziamenti espliciti, spingendo il dipendente a cercare opportunità migliori altrove. Questo fenomeno dimostra che, in talune circostanze, anche l’eccellenza professionale può essere vista come un lusso non sostenibile.
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