Molte persone, dopo anni di lavoro, scoprono che l’assegno pensionistico ricevuto non rispecchia fino in fondo i contributi versati o le loro effettive esigenze economiche. In alcuni casi, inoltre, si è portati ad accettare condizioni non troppo vantaggiose pur di andare in pensione prima del tempo.
Fortunatamente, grazie a nuove interpretazioni normative e sentenze della Cassazione, è possibile ricalcolare la pensione una volta raggiunti i 67 anni, ottenendo potenzialmente un importo più alto. In quali situazioni conviene farlo? E quali vantaggi può offrire un ricalcolo? Scopriamolo insieme.
Chiedere il ricalcolo della pensione: chi può farlo e come
L’opportunità di adeguare l’assegno a 67 anni riguarda, in particolare, chi ha maturato la pensione con il sistema misto (cioè con una parte contributiva e una parte retributiva). Se negli ultimi anni di lavoro lo stipendio si è ridotto a causa di passaggi part-time, cassa integrazione o periodi di disoccupazione, il calcolo retributivo rischia di risultare penalizzante.
Oggi, grazie alla sterilizzazione dei contributi dannosi, è possibile escludere dalla formula di calcolo i periodi lavorativi meno favorevoli, incrementando così il valore della pensione. Se questa situazione è familiare, ci si può affidare a servizi di consulenza specializzata per chiarire meglio lo scenario: ad esempio chiedi il ricalcolo della pensione con MiaPensione per verificare se e in che misura l’operazione offre un vantaggio concreto.
Va detto, tuttavia, che non tutti hanno diritto a questa rettifica. In particolare, chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 ed è quindi assoggettato al sistema contributivo puro, non trova giovamento nel ricalcolo. Le somme versate per ogni anno di contributi, nel sistema contributivo, confluiscono infatti in un montante complessivo: non ci sono periodi “dannosi” da escludere, dal momento che ogni contributo partecipa in modo proporzionale alla pensione finale.
Perché la soglia dei 67 anni fa la differenza
Nel momento in cui si accede a una forma di pensione anticipata (come Quota 103 o altre soluzioni temporanee o stabilizzate), si tende a utilizzare tutti i versamenti disponibili per raggiungere i requisiti contributivi. Può capitare però di includere periodi lavorativi poco remunerativi, in grado di abbassare la media retributiva di riferimento e, di conseguenza, ridurre l’importo dell’assegno finale.
A 67 anni, invece, la pensione di vecchiaia richiede in genere 20 anni di contribuzione. Questo significa che le annualità in eccesso, che in precedenza servivano a raggiungere la soglia per la pensione anticipata, non sono più necessarie. Escluderle può consentire di aumentare la retribuzione pensionabile media e, di riflesso, incrementare l’assegno. Soprattutto in periodi in cui lo stipendio è calato sensibilmente, la neutralizzazione può generare un notevole aumento della pensione mensile.
Insomma, quando conviene il ricalcolo?
Non sempre l’operazione di ricalcolo si traduce in un guadagno. Prima di procedere, infatti, occorre valutare attentamente se i periodi deboli siano veramente penalizzanti e se la neutralizzazione non riduca il numero minimo di anni richiesti per la pensione di vecchiaia. Nel caso in cui si abbiano esattamente 20 anni di contributi, ad esempio, togliere anche un solo periodo potrebbe far perdere il diritto alla pensione stessa.
Ecco perché la scelta di ricalcolare l’assegno a 67 anni andrebbe fatta con il supporto di un consulente esperto. L’analisi attenta della propria situazione contributiva consente di stabilire se la differenza in busta paga finale giustifichi pienamente la richiesta di ricalcolo. In molti casi, però, il risultato è positivo, specialmente se negli ultimi anni lo stipendio è sceso per motivi estranei alla volontà del lavoratore (cassa integrazione, contratti part-time involontari, ecc.).