La Vie Privée, presentato nella sezione Grand Public alla Festa del Cinema di Roma, è il nuovo film della regista Rebecca Zlotowski, che ci trascina nuovamente dentro la vita di una donna nella Parigi contemporanea, ma questa volta con una chiave completamente diversa. Qui la capitale francese diventa un prisma: la città apre una fessura tra il visibile e ciò che non si osa ricordare. Zlotowski costruisce un racconto sospeso su un equilibrio volutamente precario, che affascina proprio perché non si lascia mai davvero afferrare.
La trama: un’indagine tra realtà e inconscio
Lilian – interpretata dall’ipnotica Jodie Foster – è una fredda e riservata psichiatra americana che ha trovato il suo equilibrio in Francia. Il suo mondo però comincia ad incrinarsi quando un paziente di lunga data interrompe improvvisamente la terapia e un’altra, da tempo in cura, si toglie la vita. Il marito della vittima la accusa di non aver visto, di non aver ascoltato. E forse ha ragione, perché Lilian, ormai, registra metodicamente ogni seduta. Forse non riesce più a sentire davvero: la “distanza clinica” si è trasformata in un muro, una corazza troppo spessa che protegge più lei che i suoi pazienti.
Per la psichiatra però le dinamiche dell’accaduto non sono chiare: suicidio o possibile omicidio? È così che il sospetto muove una vera e propria indagine: Lilian dubita prima della figlia e in seguito del marito della vittima; sente che qualcosa le sfugge, che nelle parole della paziente – quelle che forse non aveva davvero ascoltato – si nasconde una verità rimossa.
Guidata da un’ostinata ricerca della verità, decide di sottoporsi ad una seduta di ipnosi. Ed è qui che il film slitta: l’inconscio spalanca le porte a una Parigi altra, immersa nella Grande Guerra, dove la psichiatra diventa una violoncellista e amante della paziente ormai morta. Un amore clandestino che brucia tra sale da concerto e camere in penombra, mentre un direttore d’orchestra brandisce un’arma e un figlio nazista contamina ogni gesto d’affetto con la minaccia del potere. L’ipnosi diventa una chiave allucinatoria con cui Lilian comincia a leggere la realtà, utilizzandola come mappa per decifrare il presente.
La “Vie Privée”, un film “capriccioso” che sfida le etichette

La Vie Privée è un film che sfugge alle etichette: lo studio della mente e la crisi interiore della protagonista ne fanno un dramma psicologico, mentre la sequenza dell’ipnosi sposta il film su un piano ambiguo e allucinatorio. La regista non sceglie un’unica direzione emotiva, questo perché lo spettatore si trova dentro la percezione di Lilian, costantemente sospesa tra analisi razionale e confusione emotiva. Tutto ciò rende il film “capriccioso”, ma nell’indecisione e in questa zona grigia che trova la sua forza: un magnetismo sottile che spinge lo spettatore a restare, in attesa di capire dove lo condurrà.
In questo ibrido vibrante si avverte quasi un’eco di Omicidio a Manhattan, non tanto nell’intreccio, quanto nella dinamica comica e improbabile tra la psicanalista e l’ex marito, partner riluttante che diventa spalla ironica e controcannto disincantato. Zlotowski, infatti, intesse sul fondo dell’indagine tensioni familiari: un figlio distaccato che rimprovera alla madre la latitanza emotiva e un rapporto aperto con l’ex in cui trapela ancora una chimica che il tempo non ha asciugato. Ma la complessità non riguarda soltanto la sua vita privata, anche il legame con i pazienti vacilla, trasformandosi nell’incubo di ogni terapeuta. Alcuni si sottraggono, altri mettono in dubbio la sua competenza, altri ancora scelgono di togliersi la vita. A complicare ulteriormente il quadro emerge, dall’ipnosi, una passione forse rimossa o forse mai effettivamente realizzata: quella per la paziente defunta. Un sentimento che Lilian non vive come un problema, ma che apre una crepa nella distanza professionale su cui aveva costruito la propria identità. L’amore e l’attrazione per la donna riaccendono in lei la capacità di ascoltare davvero – non solo i pazienti, ma anche se stessa – spostando il senso dell’indagine da una ricerca di colpe a un percorso di riconoscimento dell’io.
La Vie Privée di Zlotowski, respira pienamente la tradizione francese: interni saturi di libri e specchi, fumo di sigaretta come velatura, luci calde e granose che avvolgono i volti, il nudo, l’intellettuale incrinato dal quotidiano e l’ostentazione della libertà come estetica dell’esistenza. Non è citazionismo sterile, ma una temperatura visiva che Zlotowski interrompe puntualmente con tocchi di satira.
In questo concerto dissonante, che sembra funzionare, si aggiunge però un’altra manciata di confusione, questa volta più fastidiosa. Si tratta di una scena in cui l’intelligenza artificiale entra a gamba tesa: pochi secondi di ripresa, un glitch metacinematografico e diegeticamente alieno, posizionato negli ultimi minuti del film e difficilmente codificabile. Un frammento che resiste ad ogni spiegazione logica che non lascia molto allo spettatore, se non un grande “perché”.
Il disordine come forma di armonia
Sorprendentemente, La Vie Privée, nonostante le “torsioni”, riesce ad essere un film piacevole, che intrattiene senza troppi sforzi. Zlotowski orchestra la confusione e soprattutto dirige sapientemente Jodie Foster che riesce ad eccellere nei panni di Lilian, sia come psichiatra che come impavida investigatrice. Non è forse un film adatto a chi rifiuta l’ambiguità, ma è proprio in questo doppio registro caotico – tra lucidità e smarrimento – che rivela la sua essenza: la storia di una donna che tenta di guarire con la ragione e finisce per curarsi con un sogno. Perché, a volte, per sciogliere la matassa bisogna accettare di perdersi.
Fonte dell’immagine: ufficio stampa