Michele Rech (Zerocalcare): perché lo odio

Michele Rech

C’è stato un momento, preciso, quello in cui Zerocalcare esce dalla palestra popolare e comincia a delirare, in cui ho odiato Michele Rech. Ascoltavo quel disagiato con le sopracciglione nere e la faccia lunga in preda a un delirio d’onnipotenza e avrei voluto spegnere il pc. «Le vite degli altri non dipendono da te, coglione» – mi frullava nella testa, prima che glielo dicesse l’amica sua lì affianco. Eppure l’ho odiato perché quella sensazione là la conoscevo bene, quei dannati sensi di colpa per una cosa detta, fatta, ripetuta, perfino pensata. Ho faticato così tanto a levarmeli da dentro che vedermeli sputati là, nella loro pateticità, m’ha fatto rabbia.

Che poi forse è un po’ questo che rende Strappare lungo i bordi una serie collettiva, oserei dire universale, a partire dall’esperienza personale. E, subito dopo, una faccenda politica, prima che un lungo e largo disagio generazionale sopito, nascosto, tenuto privato. Un lungo e largo disagio fatto di quella sensazione che il futuro ci stia alle spalle, di essere costantemente fuori tempo massimo, di essere schiacciati tra la vita e la paura di vivere, di dover sgomitare e calpestare chi ci sta vicino per non soccombere noi stessi, e odiare farlo, al punto da fermarsi, bloccarsi.

«E me rendo conto che forse tutto questo sgomento nasce da un grande errore de valutazione. Che io pe’ un sacco de tempo ho pensato che se non strappavo più un cazzo, se tenevo tutte le bocce ferme, immobili, almeno non facevo altri danni. Solo che non funziona così, perché se tu tieni lo stesso foglietto de carta in mano pe’ dieci anni, pure se non lo strappi, quello se ciancica. Te sudano ‘e mani,  se fracica, ‘o pieghi a forma de ranocchia e er risultato è che dopo dieci anni c’hai comunque ‘na cartaccia da buttà. Pure se hai giocato a fa ‘a statuetta de cera.»

Ci sono due cose, però, che ho amato particolarmente della serie di Michele Rech, oltre l’armadillo e il doppiaggio di Valerio Mastandrea.

La prima è il contenuto implicitamente femminista. Calcare mette a nudo tutto il maschilismo che ha introiettato, a partire dagli stereotipi sui ruoli di genere nel rapporto di coppia, arrivando alla percezione di sé e all’immagine sociale trasmessa dai comportamenti “dovuti” (come cambiare la ruota dell’auto senza chiedere aiuto). Non c’è pink washing, non c’è mansplaining, c’è solo un necessario percorso di autoconsapevolezza.

La seconda, è l’accortezza maniacale ai dettagli, quelli che generalmente riesci a cogliere nei suoi libri e che non sarebbe stato (forse) nemmeno “necessario” inserire in una serie tv (ma d’altronde, è ciò che contraddistingue i professionisti). Tra questi, una MAREA di riferimenti.

I manifesti della metro a Ponte Mammolo, ad esempio, sono parodie di Pearl Harbor (Anvedi sti giapponesi, Giappo Attack), Shrek (Orco de panza orco de sostanza, Orks) e probabilmente Sex and the city. I poster nella stanza di Zerocalcare, invece, rimandano a Master of puppets, disco dei Metallica (Maestro de pupi), London calling, disco dei Clash (Londra chiama), Jurassic park, film di Steven Spielberg, Inglourious Basterds, film di Quentin Tarantino (Ingloriosi Malandrini) e a Rogue One: A Star Wars Story (Rog Uan – Na storia de Guera fra ‘e stelle).

I film che, a un certo punto, compaiono in un’interfaccia di Netflix sono: Bright (Luminoso), Fast and furious (Fasti e furiosi), Star Trek (Stà ar trec), War (A guera), The Crown (The Corona), Dark (Nun ce capisci mai un cazzo), La regina degli scacchi (La regina de sticazzi), Skam (Pischelli che s’ennamorano), Bridget Jones’s Baby (Brigida Gions è pregna), Voglio mangiare il tuo pancreas (Me te magno ‘a milza – Amore e cannibalismo), Me before you (Me prima de te), 300 (Semo spartaniii), Lo squalo (Te magno), Ritorno al futuro (Come innamorasse de tu madre ner passato).

Quelli sulle locandine davanti al cinema, nella scena in cui Zerocalcare incontra la ragazza a cui dava ripetizioni, sono: Lost in translation di Sofia Coppola (Famo a capisse), Mektoub My Love di Abdellatif Kechiche (Escargot my love, un film… francese), I miserabili di Ladj Ly (Un drame français soporifique).

E il poster elettorale L’ultimo faggiano è un rimando al titolo “L’ultimo intellettuale”, sulla copertina che L’Espresso ha dedicato a Zerocalcare, commentata proprio da Michele Rech durante una puntata di Propaganda Live.

Passando, tranchant, alla colonna sonora, una delle canzoni che mi è entrata in testa al punto da ascoltarla a ripetizione è Haut les coeurs dei Fauve, in una playlist che spazia da Apparat a Manu Chao, passando per Tiziano Ferro e Ron, arrivando al preziosissimo Giancane.

In definivita, con Strappare lungo i bordi ho riso, per qualche secondo mi sono annoiata, ho pianto, ho riso di nuovo con le lacrime di qualche secondo prima (e mi sono detta “ma che, davvero?”), ho provato fastidio, tenerezza, poi ho sospirato d’amarezza.

Sarà per questo che, giunta alla fine, non sono riuscita a scrivere la recensione che avrei voluto. Quella che sei già pronta a scrivere il giorno dopo, in cui stai attenta alle virgole e ai punti, sottolinei le cose “giuste” e quelle no, evidenzi le scene tecnicamente.

Negli ultimi giorni, ho letto decine e decine di articoli che “la serie dell’anno”, “la serie della vita”, chi è davvero Michele Rech, Michele Rech di qua e Zerocalcare di là.

Per me è stata impossibile una consacrazione nuda e cruda perchè Zerocalcare mi ha fatto entrare dentro di lui e dentro me stessa, e nessuna recensione può spiegarla una cosa così.

«Alla fine abbiamo scoperto che si campa pure con ‘ste forme frastagliate, accettando che non ci faranno mai giocare nella squadra de quelli ordinari e pacificati. Però se potemo strigne intorno al fuoco e ricordasse che tanto alla fine tutti i pezzi de carta so’ boni per scaldarsi. E certe volte quel fuoco ti basta… e altre volte no.»

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