Il 24 aprile è approdato su Amazon Prime Video (Non) c’è 3 senza 2, un cortometraggio a capitoli che racconta un tema ancora poco esplorato dal cinema italiano: la ricerca della maternità, tra intimità, ostacoli e tabù. (Non) c’è 3 senza 2 è scritto e diretto da Antonio Esposito, che ne è anche interprete insieme a Sara Saccone.
Secondo i dati provvisori dell’Istat, il 2024 è stato l’anno che ha segnato il minimo storico per nascite di residenti in Italia, circa diecimila unità in meno rispetto al 2023. Tutti conosciamo, più o meno chiaramente, le cause di questa crisi demografica, ma è raro che queste siano rappresentate così come agiscono all’interno di una coppia: la frustrazione, l’ansia, l’incomprensione, l’attesa, la ricerca ancora di tenerezza. Antonio Esposito, dunque, realizza (Non) c’è 3 senza 2 per dare innanzitutto, con leggerezza ma con serietà, dignità alla coppia, anche quando il terzo fa fatica ad arrivare. Il corto nasce come webserie autoprodotta da Gli Scusateci, un gruppo di film-maker nato a Napoli, attivo già da quasi trent’anni, che nel 2014 arriva sul web. Il lavoro sinergico di questo gruppo e del regista ha permesso a (Non) c’è 3 senza 2 di riuscire in poco tempo a ottenere numerosi riconoscimenti non solo nazionali (Miglior commedia al Caorle Film Festival; Miglior attore al Festival internazionale della cinematografia sociale “Tulipani di seta nera” di Roma; Miglior web series al Florence Film Awards) ma anche internazionali (Silver Award for Best Web Series ai New York Movie Awards).
La parola, dunque, ad Antonio Esposito.
Da quale esperienza o osservazione quotidiana è nata l’idea di raccontare il tema della genitorialità e del desiderio di un figlio? Cosa ti ha fatto percepire la mancanza di una narrazione “giusta” su questo argomento?
L’idea è nata in modo molto semplice, quasi quotidiano, direi. Tutto è partito da un’esperienza personale ed in quel momento mi sono reso conto che c’era un buco narrativo enorme. Se ne parla pochissimo, quasi mai col tono giusto. O è tutto un dramma, oppure un manuale medico. Quindi ho pensato ad una webserie per raccontarlo: una forma leggera, breve, ma capace di dire tanto. Non per dare risposte, ma per accendere delle luci.
Sembra che ogni personaggio rappresenti un modo assolutamente attuale di introiettare e quindi di reagire al tema, ovvero alla ricerca della genitorialità. Mi riferisco non solo alla coppia, chiaramente.
Assolutamente sì, ed è stata una scelta molto consapevole. Per me era fondamentale che il tema della genitorialità – e in particolare quello della sua ricerca – non fosse confinato solo alla coppia protagonista. Perché in realtà, quando una coppia affronta un percorso del genere, tutto il contesto attorno entra in campo: amici, genitori, colleghi. Ogni personaggio è stato pensato proprio per incarnare un tratto di questa difficoltà. In fondo anche quando gli altri ti chiedono cose tipo “quando fate un bambino” “sei stata dal ginecologo” e potrei dirne altre 100, non lo fanno con cattiveria. Semplicemente non sanno cosa si sta vivendo. E raccontare questi personaggi è stato un modo per aprire una conversazione più larga e meno giudicante.
Il corto mostra le difficoltà, ma anche la resilienza e l’amore della coppia. Quanto è stato importante per te sottolineare l’aspetto relazionale e di coppia in un percorso così spesso medicalizzato?
Fondamentale. Anzi, direi che è stato il punto di partenza. Io volevo riportare tutto a una dimensione umana. Quella fatta di sguardi, battute a metà, momenti in cui uno dei due la vive in un modo, mentre l’altro diversamente. Volevo mostrare che nonostante le difficoltà, le frustrazioni, i silenzi, c’è qualcosa che tiene insieme: l’amore. Ma non quello delle favole, intendo proprio l’amore quotidiano, fatto anche di contraddizioni e imperfezioni. E farlo con l’ironia, che ritengo essere un grande atto di resistenza.
Credi che sia esplicitamente la donna ad essere più abbattuta da questa difficoltà, in una coppia?
Sarebbe comodo dire di sì. Ma la verità è più complessa. Sicuramente la donna è più esposta: dal punto di vista fisico, medico, sociale. È il corpo su cui si concentra tutto: ormoni, calendari, aspettative. E questo peso si vede, si sente, si porta addosso. Ma allo stesso tempo, sono sicuro che ci sono molti uomini completamente travolti da quel senso di impotenza, di inadeguatezza. Solo che spesso non hanno gli strumenti, o il permesso culturale, per dirlo ad alta voce. L’uomo vive di un “dolore riflesso” se così si può dire, chiaramente caratterizzato da un figlio che non arriva, ma anche dal dispiacere di vedere la persona che ama soffrire.
La serie è nata come webserie prima di approdare su Amazon Prime Video. Quali sfide e opportunità ha presentato questo percorso, visto anche il tema, dalla produzione indipendente alla distribuzione su una piattaforma globale?
Quando fai una webserie indipendente, sai benissimo che non stai facendo il contenuto “acchiappa clic”. Nessuno corre su YouTube per cercare una serie sulla ricerca di una gravidanza. Ma proprio per questo, la scommessa era farla arrivare in modo diverso. Abbiamo fatto tanto con poco, contando su un gruppo di lavoro che ha creduto nel progetto più che nei numeri. Poi è arrivata l’opportunità di Amazon Prime Video, e lì è cambiato tutto: il fatto che un colosso del genere abbia accolto una serie come la nostra, è stato un segnale importante. Come a dire: c’è spazio anche per queste storie.
Come avete lavorato con gli attori per trasmettere le sfumature emotive di Gaetano e Sandra, rendendo la loro storia autentica e vicina al pubblico?
Io ero avvantaggiato avendo anche scritto il film, mi trovo abbastanza bene a dirigere me stesso. Con Sara poi, è sempre molto facile lavorare. Abbiamo un‘alchimia scenica fantastica, che raramente ho ritrovato in altri colleghi. Anzi, spesso chi non ci conosceva, credeva fossimo una vera coppia. Forse perché siamo molto amici anche nella vita. Molte cose le creava lei, sapendo perfettamente cosa il personaggio doveva trasmettere, senza passare per la penna. Succede questo quando lavori con chi ti capisce solo dal tono di una battuta.
(Non) c’è 3 senza 2 si inserisce in un momento storico in cui l’Italia è alle prese con un profondo calo delle nascite. Ritieni che una narrazione sincera e poco incline al dramma esplicito come la tua, possa contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica su queste tematiche e magari incoraggiare un dibattito più aperto?
Me lo auguro, sinceramente. E ti dico di più: penso che oggi ci sia proprio bisogno di un altro tipo di narrazione. Non quella fatta di titoloni allarmistici o di statistiche fredde, ma quella che parte dalle persone. Che mostra cosa c’è davvero dietro quei numeri: sogni, paure, aspettative, e anche molte solitudini. Con (Non) c’è 3 senza 2 ho voluto fare proprio questo: togliere il filtro tragico che spesso accompagna questi temi e sostituirlo con qualcosa di più vero. Che non vuol dire banalizzare il dolore, ma raccontarlo anche con leggerezza. Se anche una sola coppia, dopo aver visto il film, si sente meno strana, meno sbagliata, e magari trova il coraggio di condividere quello che sta vivendo, allora qualcosa l’abbiamo mosso.
Qual è, a tuo avviso, il messaggio più importante che la serie vuole mandare a chi sta affrontando o ha affrontato un percorso simile a quello dei protagonisti?
Che non si è soli. E soprattutto che non si è sbagliati. Viviamo in un Paese dove si parla di natalità come se fosse un dovere sociale, ma pochissimo di quanto possa essere difficile, faticoso, a volte devastante, cercare di diventare genitori. E quando questo percorso si complica, ci si ritrova spesso isolati, pieni di vergogna o di silenzi, come se il fallimento fosse personale. Con la serie ho voluto dire che è normale sentirsi così, ma che in qualsiasi modo questi momenti si attraversano, non definiscono il valore di una coppia.
Avete ricevuto feedback da coppie o individui che si sono ritrovati nella storia di Sandra e Gaetano? Se sì, c’è un riscontro che ti ha particolarmente colpito?
Sì, ne abbiamo ricevuti tanti. Ed è forse la cosa che mi ha emozionato più ancora dei premi o della distribuzione. Perché quando una persona che non conosci ti scrive “grazie, perché era come se parlassi io”, capisci che hai toccato qualcosa di vero. Non abbiamo mai preteso di dare risposte con la serie, però sapere che può diventare uno spunto, un piccolo specchio, un modo per rompere il silenzio, è qualcosa che mi fa pensare a quanto il cinema serve anche a questo: a farci sentire meno soli.
Fonte immagine: Amazon Prime Video