Polytechnique di Denis Villeneuve e il senso nascosto delle cose

Polytechnique di Denis Villeneuve e il senso nascosto delle cose

Polytechnique (2009) è un film di Denis Villeneuve tratto da un fatto accaduto realmente il 6 dicembre 1989 a Montréal: uno studente, Marc Lépine, uccise quattordici studentesse con un’arma da fuoco all’École polytechnique, per poi suicidarsi

Chiunque, di fronte ad eventi non consoni all’etica comune (non solo ciò che la legge stabilisce), che si tratti di un prete predatore, di un padre violento, di un pluriomicida, di un razzista, di un coyote, anche di una prostituta, sicuramente, si chiederà «perché l’ha fatto?». In alcuni casi ci sono delle pulsioni così violente tali da eliminare ogni freno inibitore.

In altri è questione di soldi, di lavoro. Ancora in altri si parla di motivi politici, o ideologici, che danno luogo a crimini d’odio, probabilmente. Ma in ogni caso la domanda resta accesa come una spia rossa: «allora, perché l’ha fatto?». La risposta sembra apparire sin dall’inizio del film, trascinata da un primo piano di un’opera ben nota di Pablo Picasso: la Guernica.

L’artista spagnolo realizzò l’opera per denunciare le insensatezze della guerra. Guernica fu una cittadina spagnola usata come esperimento bellico dai tedeschi in un lontano aprile del 1937, in cui vi morirono specialmente donne e bambini. Il quadro è un chiaro esempio di come tutta quella strage, la guerra che si trascina in una sola voce senza riverberi, sia sostanzialmente priva di senso.

Il senso se lo porta via col sangue scrostato e con il quale la guerra copre il suo volto. In primo piano c’è un cavallo che sembra avere in bocca la sagoma di una bomba: è la furia omicida. Il contrasto è dato da una semplice lampada posta sulla testa del cavallo che significa la distruzione dello scorrere della vita quotidiana.

Di contro c’è un toro che indica l’offesa dello spirito spagnolo, sicché i militari tedeschi col bombardamento non combatterono ad armi pari. Da sinistra a destra ci sono altre figure: un donna che ricorda la Pietà di Michelangelo; una testa mozzata in basso, una spada spezzata, persone stravolte, altre che fuggono da case incendiate.

Ogni cosa è a scatti, spezzata, velata dall’assenza di colori per enfatizzare la drammaticità del mutismo richiesto allo spettatore, che dovrebbe comprendere quanto rumore c’è nel silenzio. Di conseguenza, il quadro di Picasso così mescolato ad immagini mute in bianco e nero all’inizio del film, sembra quasi un presagio.

Polytechnique: La Guernica e quel maledetto presagio

C’è il silenzio accompagnato da una sorta di crepitio della neve. C’è l’ansia dell’attesa nelle immagini lente, nello sguardo dell’assassino che non cerca il momento giusto. In Polytechnique è tracciato tutto il percorso psicologico di Marc. Per cui non si giunge direttamente alla strage avvenuta, ma si riavvolge e si srotola la vicenda, si parte dal “come”.

Ad esempio Immanuel Kant, nella sua etica, affermava qualcosa di molto simile. Un uomo non deve essere valutato a partire dall’azione commessa, ma dal movente. Cosa ha spinto chi?

Le cause che inducono qualcuno ad agire sono molteplici e talvolta appaiono prive di senso, ma da come si evince dal film, un senso nascosto esiste. In Polytechnique la scelta di Marc si deve misurare con delle convinzioni generate dalla paura e dalla frustrazione.

Magari la sua scelta è velata da un’idea di protesta che sacrifica, però, chi non sa cosa sta succedendo, proprio come le vittime nel quadro di Picasso.

Il sangue, nella frammentarietà delle scene, sembra un filamento nero che si ramifica nell’edificio fino al proiettile che Marc si pianta in mezzo alla fronte. Lo studente agisce perché spinto dall’ansia del cambiamento; tutte le sue possibilità di far maturare la parte virile che la società richiede, sembrano irrealizzabili.

Per questo l’onnipotenza maschile vacilla nelle prestazioni sociali: la paura che ne consegue offusca ogni analisi lucida e cerca vanamente un colpevole: il femminismo dilagante. Dietro convinzioni ben consolidate che tremano, però, di fronte a qualcosa che può scalfirle l’unico catalizzatore è l’esasperazione.

Eppure essa viene definita “ideologia”. Anche la maternità viene utilizzata come un laccio che stringe e soffoca la donna, quasi fosse l’unico parametro. Essa appare più come una condanna che un fatto naturalissimo. Ecco perché da una parte c’è Marc, e dall’altra la società nella sua ipocrisia ordinaria.

In un mare di contraddizioni, Marc ha cercato un’alternativa alla sua frustrazione, ma come scriveva efficacemente Wisława Szymborska in Labirinto: «Deve pur esserci un’uscita,/è più che certo./Ma non tu la cerchi,/è lei che ti cerca,/è lei fin dall’inizio/che ti insegue,/e il labirinto altro non è/se non la tua, finché possibile,/la tua, finché è tua,/fuga, fuga».

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A proposito di Giorgia Zoino

Giorgia Zoino è nata a Benevento nell'agosto del 1995. Frequenta la facoltà di Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Napoli Federico ll.

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