Tina Pica e il comico: un’analisi a 140 anni dalla nascita

tina pica

140 anni fa nasceva Tina Pica e il suo comico, che ha caratterizzato i più grandi attori del secolo scorso. 

«Nessuno nasce imparato»

Se c’è una cosa che bisogna sempre premettere quando si parla del comico di Tina Pica e del teatro partenopeo è che non è vero che «il napoletano è teatrale per nascita», né tantomeno comico. Allontanarsi dal luogo comune che confonde l’espressività e la gestualità della lingua con una caratteristica che si acquisisce per inconsapevole necessità storica e sociologica, il più delle volte, permette di non appiattire la storia di un teatro che ha cercato costantemente di redimere la propria identità, indagandola. Un’identità ora farsesca, ora mercificata, ora stracciona, ora ruffiana, ma pur sempre identitaria. Insomma molteplice, proprio come viene definita Napoli da chi ha piacere a relegare tutto in una categoria prêt-à-porter.

La prossemica del vicolo

Come sottolinea Raffaele Furno nel suo saggio Il teatro e la città: I vicoli e i palcoscenici di Napoli nel Novecento, il centro nevralgico della vita partenopea è storicamente il vicolo. Questo budello coacervo di impressioni macchiettistiche, criminose, vitalistiche e sempre corali è il mondo in cui fin da piccoli si imparava a cavarsela leggendo innanzitutto gesti, smorfie e andature. E allo stesso modo si entrava in quella collettività indistinta di figure un po’ tragiche, un po’ giambiche.

Il comico, inconsapevolmente, era il primo livello di contatto tra gli attanti dei vicoli. Padroneggiare quel livello immediato della comunicazione con gesti, con monosillabi che schioccano in bocca, con cenni di intesa, è la prova che gli attori, figli dei vicoli, poi porteranno in scena, e che portò alla nascita di Tina Pica e del suo comico. Eppure, nessuno di essi, attori o no, è comico né nasce comico. L’effetto comico scaturirà solo nel momento in cui vi sarà lo spettatore ad assistere a quel movimento simmetrico ma sbilenco con indifferenza emotiva, senza potersi né affratellare a quel consorzio umano né capirne le necessità. 

La vita del vicolo comporta una certa conformità, una normativa dell’apparenza i cui attori noti incarnano nei loro visi ossuti, netti,  o nelle voci ora roboanti, ora nasali, ora flebili; espressioni di uomini e donne della Napoli, ma viene da pensare di un qualsiasi popolo inteso sociologicamente come tale, che fu. Vestigia di un passato di gavetta, «artigianato del comico prima dell’Arte del comico», disse qualcuno. Tina Pica è anziana da prima che lo diventi: è una perfetta espressione di quei vicoli, perché il suo corpo, parodia androgina e spigolosa, la determina e suggerisce il segreto di una accettata finzione, per chi guarda, mai interamente condivisa.

Tina Pica e il comico

Se poco rimane di Tina Pica interprete teatrale, come capocomica o accanto ai De Filippo nella Compagnia teatro Umoristico I De Filippo, prima, e nella Compagnia Il Teatro di Eduardo, poi, molto abbiamo di Tina Pica al cinema.

Esordisce nel muto nel 1916, e da lì in poi diventa una figura indimenticabile accanto a Vittorio de Sica, a Totò, ad Alberto Sordi, a Titina de Filippo, a Sofia Loren, a Mastroianni. Accanto, si legga bene, non “con”: il piano è lo stesso ovvero una linea (di)retta; l’attore cardine, per quanto completo possa essere, ha sempre trovato in Tina Pica una mordace, apparentemente discreta, spalla comica figurativa che traduce movenze e ghigni come commento alla comicità dell’attore principale.

Quasi come risposta meccanica e puramente visiva di una marionetta che svela i fili della  marionetta morale protagonista. La funzione di cristianissima e devotissima Celestina di Tina Pica si attiva quando ad essere comico, o tragicomico, è il vizio del personaggio principale, del padrone, ignaro di sé stesso, al quale lei ribatte con popolare pragmatismo, con fatalismo o con realistico squarcio della prassi recitativa. E nel corpo, il comico di Tina Pica diventa una calcolata smorfia che accompagna l’enunciazione. Lo spettatore scoppia in un riso per il sorprendente, che pure è la vita stessa già nota, ma ora guardata con distacco e quasi didascalizzata. 

Si riconosce, nello spazio comico in cui Tina Pica si muove, una commedia dell’arte compita e rielaborata dove il riso non è per l’intrattenimento ma per il giudizio, per l’impressione di una cosa a cui prestare attenzione; un riso che, non ancora scopo unico, mischia serietà e allegria grazie a una figura che stabilisce una relazione complementare tra attore e spettatore, smascherando la comicità di alcune «norme di rispetto, di educazione, di decenza […] dalle regole gerarchiche familiari, sessuali e istituzionali» che passano inosservate ad ordinare il nostro vivere in comune.

Il comico mimetico di Tina Pica, però, non diventa in nessun momento arbiter morale perché rimane comunque al di là del gruppo di spettatori; rimane sempre accanto all’attore che commenta, al vizio di cui si beffa, al mondo che le è proprio, almeno fino al 1968, anno della sua morte. 

Fonte immagine: Wikimedia Commons

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