Il Cavaliere Inesistente. Italo Calvino | Recensione

Il Cavaliere Inesistente:  Un’analisi della trilogia “I nostri antenati” 

Storie di un esilio, di allegorie fantastiche e tensioni memorialistiche

“Il Cavaliere inesistente“, uscito nel 1956, è l’ultimo dei tre racconti che compongono la meravigliosa trilogia “I Nostri Antenati” di Italo Calvino.  Questo romanzo rappresenta un punto di partenza perfetto per l’analisi delle tematiche e delle intenzioni che animano l’intera trilogia calviniana. Lo Scrittore nato a Cuba, mira con la sua opera a rappresentare all’interno di un mondo fiabesco la triste identità dell’uomo postmoderno, metaforicamente dilaniato dai conflitti, immerso in una condizione di straniamento, insicurezza, frammentazione dell’io e senso dell’abbandono.  
In una società in cui spazio fisico e spazio simbolico hanno perso di qualsiasi connotazione fissa, divenendo  categorie fluttuanti, confuse tra loro, distorte, sovrapposte fino al limite del paradossale, la realtà diviene inafferrabile e impossibile da descrivere da un punto di vista realistico. Per questa ragione Calvino decide di rifugiarsi in un linguaggio simbolico-allegorico, immergendo le sue storie in un mondo cavalleresco, romanzesco, sfumato nei suoi contorni temporali e spaziali. L’apparente distaccamento dalla realtà però,  altro non è  un tentativo di riadattamento a un presente sfuggevole e incomprensibile attraverso una nostalgica  tensione della memoria verso un passato fiabesco. L’autore si rifugia nelle proprie radici, in una dimensione mitica e universale, l’unica attraverso la quale poter comprendere la condizione dell’essere umano: esiliato fin dalla sua genesi dall’Eden, dal ventre materno e ora nel mondo postmoderno da se stesso.

“– Dico a voi, ehi, paladino! – insisté Carlomagno. – Com’è che non mostrate la faccia al vostro re?
La voce uscì netta dal barbazzale. – Perché io non esisto, sire.”

Il Cavaliere Inesistente: l’esempio di una pura esteriorità

Calvino riprende il carattere labirintico della scrittura ariostesca, e ne trasforma il costante processo di dilatazione diegetica e dell’espansione spaziale in qualcosa di paradossale, mischiando la dimensione esteriore a quella interiore. Lo spazio diviene correlativo oggettivo di una interiorità inquieta in cui al vagare del corpo corrisponde il vagare dell’anima. L’uomo si perde così in una quête tutta esistenziale, eternamente uguale, appigliato alla pura materialità.
  “Il cavaliere inesistente” è l’esempio di un’esteriorità sostanziale. Svuotato di qualsiasi istanza spirituale il cavaliere è profondamente insoddisfatto. Infatti, nonostante sia tra tutti il paladino più efficiente, è anche il più infelice. 

“Dalle tende a cono si levava il concerto dei pesanti respiri addormentati. Cosa fosse quel poter chiudere gli occhi, perdere coscienza di sé, affondare in un vuoto delle proprie ore, e poi svegliandosi ritrovarsi eguale a prima, a riannodare i fili della propria vita, Agilulfo non lo poteva sapere e la sua invidia per la facoltà di dormire propria delle persone esistenti era un’invidia vaga, come di qualcosa che non si sa nemmeno concepire.”

L’affermazione stessa della identità di Agilulfo diviene qualcosa di problematico. Il più grande paladino dell’epoca di Carlo Magno, altro non è che un’armatura vuota, un ammasso di ferraglia, che si muove in maniera inerziale. Attraverso la figura del cavaliere inesistente, Calvino mostra le ripercussioni disastrose che l’applicazione della filosofia naturalistica ha avuto sulla vita umana. La società dei consumi ha trasformato tutti in figli del caso, persi in uno spettacolo cosmologico che non si può controllare, vagabondi, che come Agilulfo, non hanno uno scopo.
Il cavaliere inesistente diviene nel romanzo calviniano l’immagine dell’uomo postmoderno, un moderno Sisifo, imprigionato in un continuo e incessante ripetersi di azioni vuote, fini a se stesse.
In una società così afflitta da crisi culturali e allo stesso tempo spirituali, l’essere umano si trasforma in qualcosa di puramente materiale,  privo di identità, afflitto tragicamente dal continuo sentimento dell’avvertimento della mancanza. Un uomo che crede di essere, ma che in realtà come Agilulfo, è un guscio vuoto, un puro apparire, un esule privato della terra materna, delle proprie origini. Destinato a una illacrimata sepoltura, bloccato in una continua tensione verso il divenire. 

Fonte Immagine di copertina: Flickr

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A proposito di Giuseppe Musella

Laureato in mediazione linguistica e culturale presso l'Orientale di Napoli. Amo tutto ciò che riguarda la letteratura. Appassionato di musica, anime, serie tv e storia. Visceralmente legato a Napoli.

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