Come fosse una soglia, un confine, un cancello da valicare eretto ad ostentare i confini di territori di nessuno. La coscienza è uno di questi… qualcosa di visibile e di ragionevole ma lontanissima e inespugnabile fino in fondo. Almeno questa è la prima fotografia che mi arriva dall’ascolto di “Singolarità Nuda”, il nuovo lavoro di Cosimo Bianciardi & Intima PsicoTensione: un attraversamento e, al tempo stesso, una sospensione, non restiamo definiti, forti di poche “non” risposte… quanto meno cerchiamo di ragionarci su e Bianciardi sa farlo con una penna dal pop puntuale e mai scontato. Un’opera che scomoda la scienza per parlare dell’interiorità, che prende in prestito il vocabolario dell’astrofisica per aprire varchi nel linguaggio dell’anima.
Al centro, c’è l’immagine affascinante e sfuggente della singolarità nuda, quella porzione teorica del buco nero che, privata del proprio orizzonte degli eventi, potrebbe diventare visibile, osservabile. Una metafora potente, che Bianciardi utilizza per dar forma al desiderio – o al timore – di vedersi davvero, di affacciarsi nel punto più profondo della propria coscienza e, da lì, provare a ricomporre le traiettorie del senso.
https://www.youtube.com/watch?v=BijQx3x3XuQ
Il disco si muove su coordinate multiple, tanto musicali quanto emotive, sfoggiando anche un bel rock che cerca ricami barocchi, qualche psichedelica trovata melodica, stratificato insomma, ricco di riferimenti e contaminazioni: l’autore pop si fa rock e incontra derive jazz, increspature elettroniche e visioni digitali, in una materia sonora che nella libertà però fa i compiti a casa, dosando con gusto e forza ritornelli e strofe. E tutto questo lo dobbiamo alla splendida produzione a firma di Fabrizio Orrigo, a tutti gli effetti l’altra colonna portante del progetto.
https://www.youtube.com/watch?v=hj2FqwALKTE
I testi non rincorrono slogan né immediatezze e qui torna la bravura di Bianciardi di stare sempre in posizioni diplomatiche: non fa il cantautore impegnato distante anni luce dal quotidiano ma non risolve mai le chiuse con rime baciate o trovate metriche di scontata maniera radiofonica. Ci parla di identità, di disallineamenti interiori, di derive culturali, di spiritualità laica. Tutto questo senza mai perdere il contatto con la carne viva della realtà, di fragilità, di tentativi maldestri, di bellezza intravista e mai davvero afferrata.
Durante tutto il disco – ad eccezione di due momenti lunghi un minuto dentro cui il racconto è quasi puramente strumentale e lisergico, visionario, sghembo – abbiamo a che fare con canzoni riuscite ma mai forti di una personalità che si impone: se il suono ruvido ai bordi coccola melodie rassicuranti (ogni brano, davvero ogni brano ha formule che si fanno ricordare), è anche vero che il mix della voce, il suo modo di cantare e – quindi – le liriche, sembrano cozzare con l’amalgama di tutto. Non so bene come spiegarlo: è un po’ come il doppiaggio della voce di Sydney Adamu nella serie “The Bear”. Forse ho esagerato un poco ma credo renda l’idea.
Su tutto la tracklist si chiude con “Nebulosa” che penso sia il momento più alto del disco sotto tutti i punti di vista: quell’aria psichedelica, quel modo pop, quegli arrangiamenti rock (la batteria qui fa esattamente un gioco da main stage), quel senso che sembra trovare una ragione finale visto che probabilmente accetta la resa di non aver trovato una risposta al tutto… e probabilmente, è questa la risposta.
È un disco in bilico: non rivoluziona ma neanche tradisce. Sta nella terra di nessuno… probabilmente, in futuro intendo, si dovrebbe pensare ad uno scossone della norma…
https://open.spotify.com/intl-it/album/7CvfhhmfVGwnIUCE3cu9oe?si=SarbSPD3ReiUH7gktjqOVQ