Da venerdì 30 maggio è uscito in rotazione radiofonica “DI COSE BELLE” di Jonio, giovanissimo cantautore e pianista salentino. Il brano si presenta quasi come un elogio alla fragilità ed alla sua accettazione che l’artista riesce perfettamente ad inquadrare in un mondo iper produttuvistico che non lascia margine d’errore.
La musica del brano avvolge l’ascoltatore in un abbraccio sonoro, cullando con delicatezza il concetto di una bellezza spesso trascurata: quella nascosta nei piccoli gesti, nei dettagli quotidiani. Così, nota dopo nota, conduce in un viaggio intimo verso la leggerezza e la spensieratezza della vita.
Abbiamo avuto l’opportunità di intervistare questo talentuoso giovane così da entrare nella profondità del pezzo.
Intervista a Jonio
Nel tuo brano sembri suggerire che riconoscere la propria fragilità non è una sconfitta, ma un atto creativo. Ti sei mai chiesto se la forza che oggi associamo alla resilienza non rischi di diventare solo una forma più sofisticata di autocensura?
È un po’ complesso rispondere a questa domanda. Credo che mostrare un atteggiamento positivo e resiliente nei confronti della propria fragilità non significhi indossare una maschera, piuttosto rappresenta un modo per dare il giusto peso alle insicurezze in modo da affrontarle con lucidità. Non si tratta banalmente di “convincersi che vada tutto bene”, ma di prendere consapevolezza di sé per poi agire da protagonisti, senza vivere passivamente quello che ci accade.
Hai raccontato di essere cresciuto con l’idea che deludere equivalga a fallire. Secondo te, quanto è radicata questa mentalità nella nostra educazione e nella nostra cultura? E quanto ci condiziona anche da adulti, nel modo in cui amiamo, lavoriamo o ci esprimiamo?
Gli effetti di questa mentalità si riscontrano soprattutto da adulti. Quando siamo bambini si muove silenziosa dietro all’importanza che viene data a un ottimo voto a scuola, o alla necessità di non deludere gli insegnanti e i genitori. Poi si mostra nel bisogno di sentirsi parte di un gruppo durante l’adolescenza, nel bisogno di non sentirsi escluso. La nostra cultura ci ha abituati a considerarci sbagliati nel momento in cui si esce fuori dagli schemi. E questo ci condiziona fortemente, perché non siamo aperti alla spontaneità, per paura di essere giudicati. Abbiamo timore ad esprimere le nostre opinioni, perché possono essere diverse da ciò che è universalmente condiviso. Crediamo che l’unico modo per meritare risultati sia lavorare sodo e dare sempre il massimo. Essere sé stessi non deve mai diventare un motivo di fallimento. Crescendo ci dimentichiamo di guardare le piccole cose con gli occhi di un bambino, col sorriso di chi ha voglia di scoprire il nuovo, e finiamo per sentirci rinchiusi in una gabbia.
“Di Cose Belle” sembra cantare una bellezza non ostentata, che si manifesta nel quotidiano e nelle crepe. In un’epoca dominata dall’estetica del controllo e dalla narrazione positiva a tutti i costi, pensi che ci sia ancora spazio per l’irregolarità, il dubbio, l’incompiutezza?
Assolutamente sì, e credo sia non solo importante, ma necessario. Oggi più che mai ci viene chiesto di apparire sempre forti e vincenti o di rispettare dei canoni, e il fatto che siamo continuamente esposti peggiora la situazione. Questa “bellezza” che ci viene imposta è solo qualcosa di effimero, che scade in poco tempo. “Di Cose Belle”, invece, nasce proprio dal bisogno di normalizzare tutto ciò che di solito si tende a nascondere: il dubbio, l’imperfezione, il sentirsi a volte fuori posto. La verità è che la fragilità fa parte della vita, e anzi è spesso lì che risiede la parte più autentica di noi. C’è ancora spazio per l’irregolarità, ma serve il coraggio di parlarne. E credo che la musica possa essere uno di quei luoghi sicuri in cui farlo.
In un’epoca in cui l’errore è spesso punito più che compreso, tu scegli di cantare la possibilità di cadere e rialzarsi. È una forma di resistenza?
Sì, possiamo dire che sia una forma di resistenza gentile. In un mondo che ci abitua a pensare che sbagliare equivalga a fallire, scegliere di raccontare l’errore come parte naturale del percorso umano è un atto controcorrente. Con “Di Cose Belle” ho voluto restituire dignità a quel momento fragile in cui ci si sente inadeguati e goffi, perché è proprio da esso che si può trarre un insegnamento e realizzare qualcosa. Resistere, in quest’ottica, può voler dire anche permettersi di essere umani, e raccontarlo con dolcezza.
Viviamo in un’epoca in cui tutto è esposto, condiviso, visibile. Ma tu scrivi una canzone che sembra più un gesto silenzioso, quasi privato. Ti senti a disagio nel sistema che chiede agli artisti di essere sempre “visibili”, prima ancora che veri?
Sì, a volte mi ci sento a disagio. C’è una pressione costante a mostrarsi, a essere presenti, a costruire un’immagine che funzioni prima ancora di raccontare qualcosa di vero. Io ritengo, invece, che l’urgenza artistica non debba nascere dall’esigenza di visibilità, bensì da un bisogno interiore, autentico. Scrivere per me è un gesto intimo, quasi terapeutico. Nasce in silenzio, nei momenti in cui sento il bisogno di capirmi, di fermare qualcosa che altrimenti scivolerebbe via. Non ho mai voluto forzare l’idea di “esserci” a tutti i costi. Preferisco arrivare con qualcosa che sento profondamente, piuttosto che essere costantemente esposto solo per non sparire. Alla fine, credo che la verità di ciò che si racconta genuinamente abbia più forza di qualsiasi strategia.
Sei un artista e un futuro medico. Due ruoli che, in modo diverso, si confrontano con il dolore. Ma il dolore personale è ancora legittimo, in un mondo che misura il valore solo attraverso l’utilità sociale? Ti senti mai in colpa per avere delle fragilità?
Sì, a volte mi capita di sentirmi in colpa per le mie fragilità, come se non fossero “concesse”. Forse fin troppo spesso, considerando il fatto che mi ritengo una persona estremamente autocritica. Viviamo in un tempo in cui il valore personale sembra dipendere da quanto si riesce a essere produttivi e funzionali agli altri. E questo può farci sentire in difetto quando siamo noi, invece, ad avere bisogno di tempo, di ascolto, di cura. E tendiamo a sminuirci ancora di più quando qualcosa non va. Ma questo è un sentimento un po’ subdolo, azzarderei a dire. Basterebbe solo fermarsi, accogliere l’inadeguatezza e concedersi al dolore. Sia la medicina che l’arte mi hanno insegnato (e continuano a farlo) che il dolore non va negato, ma attraversato. E che le fragilità non sono un limite, ma un modo per sentirsi umani. Se da medico voglio prendermi cura dell’altro, da artista ho il compito di non censurare la mia parte più vulnerabile, perché solo grazie ad essa posso creare una reale connessione con chi mi ascolta. Credo che il dolore personale sia legittimo, anche se invisibile, anche se non sempre “utile”. È parte di ciò che ci rende veri. Imparare a guardarlo senza vergogna è un atto di coraggio che può dare senso anche al dolore degli altri.
Hai detto che sei “il primo ascoltatore” di questa canzone. Ma chi immagini che potrebbe averne davvero bisogno? C’è una figura, reale o simbolica, a cui vorresti arrivasse questo brano, anche solo per un attimo?
Penso che siano tante le persone a cui vorrei arrivasse questa canzone. Quelle che tendono a colpevolizzarsi per non essere sempre all’altezza, che si nascondono quando si sentono fragili. È un brano rivolto a chi fa fatica a perdonarsi, a chi pensa di rinunciare ad un sogno nel cassetto per paura di fallire, a chi dimentica di sorridere di fronte alle piccole cose. “Di cose belle” è come una carezza che invita a non sentirsi soli, affinché nessuno debba sentire il bisogno di ricercare la perfezione per meritare il bello della vita.
fonte immagine: ufficio stampa