Il quadrifarmaco dei Rolling Stones

Il quadrifarmaco dei Rolling Stones

Il quadrifarmaco dei Rolling StonesÈ il 1972 e i Rolling Stones sono all’apice della loro fama.

Hanno ai loro piedi un’intera generazione di sessantottini, che li hanno idolatrati a guru della ribellione contro il potere e il conformismo. Mick Jagger e Keith Richards sfornano capolavori a ripetizione da un quinquennio e sembrano non sbagliare una mossa. In quell’anno i Rolling Stones pubblicano Exile On Main Street, zenith della loro creatività. E ideale punta di un iceberg comprensivo di altri tre capolavori degli Stones, Let It Bleed, Sticky Fingers e Beggars Banquet, sublimazione di un genere, il rock, di cui sono i portabandiera da più di cinquant’anni.

Da quel momento fu chiaro per tutti che erano loro “The world greatest’s rock’n’roll band”. Perché nessuno meglio dei Rolling Stones ha incarnato l’essenza stessa del rock con le sue smanie, esplorandone i bassifondi e partendo dalle loro radici blues. Beggars Banquet, Let It Bleed, Sticky Fingers e Exile On Main Street sono un quadrifarmaco che avrebbe steso anche Epicuro. Una tetralogia semplicemente essenziale. Certo, i Rolling Stones hanno pubblicato anche altri grandi album nel corso della loro carriera, Aftermath e Some Girls su tutti. Ma quei quattro capolavori, registrati uno dopo l’altro, sono figli di un periodo probabilmente irripetibile.

Rolling Stones, la tetralogia perfetta

La saga comincia nel 1968: è l’anno di Beggars Banquet, è l’anno delle grandi rivolte studentesche nel mondo. “But what can a poor boy do,except to sing for a rock ‘n’ roll band?” si chiedono i Rolling Stones in Street Fighting Man. Versi che riflettono molto meglio di un manuale di storia il clima di quell’anno. Il perno su cui gira il disco è ovviamente la samba satanica dell’intramontabile Sympathy For The Devil, con un Mick Jagger perfettamente a suo agio nei panni di Mefistofele. La delicatezza di No expectations, il country-folk di Dear Doctor, la psichedelia di Jigsaw Puzzle vanno a comporre un Lato A del disco estremamente eclettico. Beggars Banquet contiene però, perdonate il gioco di parole, anche un Lato B da urlo. Dell’inquietudine di Street Fighting Man si è già parlato. Che dire allora del blues sporco e cattivo di Stray Cat Blues (storia di un seduttore di minorenni), del country melanconico di Factory Girl e del gospel corale di Salt Of The Earth?

Let It Bleed è il secondo atto della tetralogia, totalmente diverso da Beggars Banquet per la maggiore presenza di suoni acustici. L’album si apre con una delle canzoni più celebri del repertorio dei Rolling Stones, quella Gimme Shelter che è un’apoteosi sonora sempre più in crescendo. You Can’t Always Get What You Want e You Got The Silver sono le altre canzoni più apprezzate dai fan dell’album. Estremamente differenti dal sound tipico del gruppo, esse presentano caratteristiche tipiche del rock, quali un testo ottimista che invita, in particolare nella prima, a provarci sempre a ottenere ciò che si vuole perché “If you try sometimes, you get what you need”. Nessuna canzone sembra farsi preferire ad un altra in Let In Bleed, peraltro arricchito dalla cover di Robert Johnson Love in Vain e dal Lato B di Honky Tonk Women, Country Honk. L’album, ultima prova del batterista Brian Jones prima della tragica fine, chiuse i favolosi sessanta, catapultando con prepotenza i Rolling Stones nel decennio successivo.

Inaugurato con Sticky Fingers, che fece discutere già dalla copertina, quella dei jeans col pacco gonfiato. E che si apre con l’inimitabile riff di Keith Richards in Brown Sugar, per concludersi con la tragedia tossica di Sister Morphine, arricchita da Ry Cooder, e la ballata ebbra, oscillante a mezz’aria, di Moolight Mile. Nel mezzo gli eccessivi barocchi melodici di Wild Horses, lo sconvolgente rhytm’and’blues di Can’t you Hear Knocking Me e la ondeggiante “Bitch”, a metà tra blues e funky.

L’ascolto dei precedenti lavori ci hanno liberato dalla paura degli dei, della morte e della mancanza di piacere; tocca a Exile On Main Street dimostrare la provvisorietà del dolore con una sequenza di generi riletti in chiave ruvida, guascona e diabolica. Se Rip This Joint, Casino Boogie e Ventilator blues fanno parte del repertorio tradizionale dei Rolling Stones, Sweet Virginia e Torn And Frayed sono country-song che dimostrano come il gruppo abbia assimilato tutte le caratteristiche della musica d’oltreoceano. Exile On Main Street è infatti un viaggio nel repertorio musicale degli Stati Uniti, in particolare del Sud. Il vento dell’Alabama e i paesaggi del Texas rieccheggiano qua e là nel disco, in particolare in Turd On The Run, Happy (cantata da Keith Richards) e Rocks Off, mini-trilogia inserita nel solco di un’epopea degli States.

Non si deve invidiare nessuno; i buoni non meritano invidia; per quanto riguarda i cattivi, più hanno fortuna e più si rovinano” recita Epicuro nella Lettera sulla felicità. Per fortuna che i Rolling Stones abbiano sfatato questa sentenza: brutti, sporchi e cattivi, con questo big-bang creativo hanno creato il quadrifarmaco del rock, una tetralogia perfetta, in grado di guarire l’ascoltatore dalle sue paure liberandolo da ogni passione irrequieta.

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A proposito di Matteo Pelliccia

Cinefilo, musicofilo, mendicante di bellezza, venero Roger Federer come esperienza religiosa.

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